Una telefonata nel cuore della notte. Fabrizia era stremata da un periodo di lavoro estenuante ed era appena crollata in un sonno che sperava durasse un secolo, non poche ore. Invece fu l’ultima notte in cui ancora sentì parlare dell’ex marito alcolista ed ex cocainomane che le aveva divorato un anno di vita.
Fabrizia, bella e con la vocazione innata ad aiutare gli altri. Più o meno, le 4.08 di notte, la voce di Livia dall’altra parte del cellulare: “Puoi tornare a casa, Fabrizia, lui non c’è più.”
Poi, un pianto disperato e senza possibilità di consolazione. Fabrizia ebbe appena il tempo di riconoscere la voce della ex suocera Livia e di colpo si ritrovò indietro di anni, quando casa era quella in cui abitava con il marito più giovane di lei e bello come il sole. Matteo l’aveva corteggiata fino allo sfinimento. Lei, donna in carriera affermata reduce da un divorzio massacrante non aveva intenzione di legarsi più a nessuno finché non s’era invaghita di quel sorriso perfetto.
Matteo e le sue rose rosse, i suoi bigliettini sparsi ovunque, i suoi pranzi preparati con raffinatezza e dolcezza infinita, le sue mani curate e i suoi baci appassionati.
Fu facile cadere in una rete costruita con tanta abilità, intelligenza e sottile cura. La proposta poi arrivò durante il periodo natalizio, tra luci, candele, musica jazz, doni sotto l’albero, la famiglia finalmente riunita, la felicità leggera ed inebriante come un buon bicchiere di vino. Peccato che non era soltanto un bicchiere.
Intere bottiglie bevute come fossero acqua e poi amari e vodka e poi ancora vino. Non c’erano soldi che potessero bastare. Il consumo di alcol a casa era incessante e in crescendo come la rabbia e la violenza verbale e da ultimo fisica che Matteo aveva manifestato. Urla, parolacce, insulti, cadute indecorose su mobili, oggetti di valore sbattuti sui muri, schiaffi e spintoni, attacchi e colpevolizzazioni continue per ogni cosa.
Un inferno in cui Fabrizia si era ritrovata fin da subito con le promesse e le lacrime che si sarebbe curato, sarebbe guarito, avrebbe incominciato la terapia, il periodo di disintossicazione, ogni trattamento possibile, lo sport per stare lontano dalla bottiglia. Promesse puntualmente disattese, menzogne che si accatastavano su menzogne, liti continue e altre promesse. Conti dissanguati per spese folli mai giustificate.
La scusa o l’alibi perfetto era sempre l’azienda che attraversava un periodo di crisi, l’azienda che aveva esigenze economiche maggiori e prioritarie su tutto. Ma i bonifici parlavano chiaro.
L’alito infestato dal sapore dell’alcol pure, il gonfiore addominale anche. Matteo era un ex brillante imprenditore alcolizzato e perduto senza che nessuno potesse salvarlo, neanche la moglie, neanche la madre, neanche quel figlio che fortunatamente mai arrivò nel brevissimo matrimonio consumato nella violenza e nella paura. La maschera dell’uomo galante, romantico, gentile, raffinato e passionale cadde ben presto. Il vero volto di Matteo era venuto a galla una sera di novembre, durante una cena di lavoro importante della moglie.
Lui senza alcun ritegno aveva bevuto fino all’inverosimile e in palese imbarazzo Fabrizia lo aveva pregato di rientrare a casa. Ma Matteo in preda al suo delirio di onnipotenza, con forza assertiva aveva voluto accompagnare l’ospite del convegno presso l’Hotel in cui alloggiava.
L’indomani si era scatenato l’inferno. Matteo aveva guidato in stato di ebbrezza per l’ennesima volta e accompagnando l’ospite in albergo aveva avuto un incidente. Per fortuna, a parte l’auto, nessuno dei due aveva riportato danni. Ma Fabrizia che lo aveva atteso a casa con il fiato sospeso, capì e durante l’ennesima discussione furiosa, Matteo perdendo l’equilibrio con tutta la forza dei suoi meravigliosi 40 anni cadde a terra sbattendo la testa allo spigolo del tavolinetto di cristallo del salone. Ora il sangue colava tra le mani di Matteo che inveiva parolacce irripetibili contro la moglie accusandola che era lei a portarlo a quello stato di agitazione tanto da perdere l’equilibrio e farsi del male e il tappeto di casa. Il sangue era ovunque. Fu quella notte stessa che Fabrizia lasciò in maniera definitiva la casa di cui adesso la ex suocera parlava. “Puoi tornare a casa -le aveva detto-lui non c’è più.”
Notizia del quotidiano del giorno successivo: Giovane ex imprenditore perde la vita schiantandosi con l’auto ad altissima velocità contro il guardrail dell’autostrada A19. Inutile i soccorsi.
Matteo guidava in stato di ebbrezza. È vero, lui non c’era più. Era morto così come aveva voluto vivere.
Senza regole, equilibri, sfidando sempre tutto e tutti, perfino la morte. Con il piede sull’acceleratore dell’adrenalina, dell’eccesso, della dismisura. Tra cocaina e alcol. Tra viaggi folli e donne irretite nella stessa identica spirale. Sedotte con il viso angelico del brillante e giovane imprenditore per poi diventare il punchball dei suoi demoni, frustrazioni, rabbia feroce, sensi di colpa. Donne divenute colluse e complici di una vita intessuta di buchi finanziari, menzogne continue, tradimenti, ritorni colmi di scuse e lacrime per poi ricominciare il copione esattamente come prima.
Insulti, violenze psicologiche e fisiche, richieste continue di soldi, ricatti emotivi, manipolazioni, ingiurie di ogni sorta.
Fabrizia si era salvata. Livia, la madre, no. Ora stava raccogliendo le ultime esigue forze per predisporre il funerale del figlio bello come il sole. Di quel figlio a cui aveva cercato di dare tutto. Amore, stabilità, sicurezza economica, una azienda facoltosa, una casa di grande lusso. Tutto, come ogni buona madre cerca di fare per il proprio figlio. Matteo era figlio unico del precedente matrimonio di Livia. Non aveva mai accettato il nuovo marito della madre e forse a causa di questo amore morboso e ossessivo verso la madre, aveva cominciato ben presto ad autodistruggersi, prima con ogni tipo di droga, poi con l’alcol.
Da ultimo sembrava avesse trovato pace con Fabrizia, l’unica donna che aveva voluto tenacemente sposare. Ma il matrimonio aveva slatentizzato ancora di più il mostro che gli abitava dentro. Adesso che in Fabrizia rivedeva la moglie che non era riuscita ad essere sua madre per il proprio padre perennemente assente e la madre che non era riuscita ad essere Livia. Adesso che il mostro del passato della dipendenza si era impossessato di lui completamente. Adesso era solo inferno.
“Non c’è più una casa in cui tornare- disse Fabrizia- con voce angosciata a Livia.”
Casa per Fabrizia che da sola aveva dovuto pagare debiti, affrontare umiliazioni, giungere ad un altro divorzio, subire accuse infondate, insulti e schiaffi, non esisteva più. Casa era lei, la sua carriera quasi compromessa dal marito, la sua reputazione infangata da un uomo violento e tossico, il suo amore per la cultura che ancora una volta, l’aveva salvata. Casa era lei, i suoi libri, i suoi gatti, le sue candele, la sua musica jazz. Fabrizia aveva voluto salvarsi a tutti i costi, ancora una volta.
Matteo no. E ora Livia parlava di casa. Povera Livia folle di dolore per aver perso il suo unico figlio di cui sfoggiava sempre le foto di quand’era bambino dicendo che no, lei non lo aveva educato così. Che lei gli aveva insegnato il rispetto, l’etica del lavoro, l’educazione, la gentilezza, il garbo e che non sapeva perché fosse caduto nella rete delle dipendenze. Fabrizia non si presentò neanche al funerale. Solamente una visita fugace a Livia prima di ripartire per l’ennesimo convegno.
Uno sguardo e poche parole: “L’amore non è essere collusi - Livia- ma accettare pur nel dramma del fallimento di madre o moglie che l’altro non ci appartenga e che sia libero di salvarsi o distruggersi. Nessuno può salvare nessuno. Non potevi salvare Matteo da madre. Non potevo farlo io da moglie. Ma sicuramente potevi dire la verità in tutti questi anni. Piuttosto che pensare che da sola avresti risolto coprendo tutto, pagando tutto, tacendo su tutto. L’amore sano sa fermarsi. L’amore sano sa anche denunciare chi continua a farsi e a fare del male.
C’è una soglia di responsabilità etica oltre la quale non si può andare. Tante volte te l’ho detto. Hai sempre coperto, fatto finta di nulla, minimizzato, colpevolizzato gli altri, non da ultimo la mia scelta di andarmene per salvarmi. Se non l’avessi fatto a quel funerale a parte te ci sarebbe stato anche mio padre a piangere la mia vita spezzata da un uomo che non ha mai saputo amare se stesso, di conseguenza è sempre stato incapace di amare gli altri. Mi spiace, ho scelto di vivere.
Lo avresti dovuto fare anche tu. Forse oggi Matteo sarebbe in comunità ancora vivo e non sotto una lapide.”
Fabrizia nei giorni successivi si recò da sola a trovare l’ex marito al cimitero e portò con sé soltanto due cose: una foto che li ritraeva felici insieme, una delle poche in cui Matteo pur gonfio era abbastanza lucido e una piccola statuetta di un cavallo ferito che lui le aveva regalato per il loro anniversario. Guardando la foto del giovane marito preda della incapacità di salvarsi dall’alcol con un amaro sorriso disse: “Torna a casa, Matty, torna a casa, cavalcando il tuo cavallo puro sangue. Adesso le sue ferite sono guarite per sempre insieme alle tue e a tutte quelle che hai saputo fare.”
Fabiana "Bia" Cusumano