​Médèa, Selinunte e questo potente teatro di Bonagiuso

La straordinaria recensione di Giordana Safina

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
21 Agosto 2023 12:42
​Médèa, Selinunte e questo potente teatro di Bonagiuso

Prenoto sempre con largo anticipo per assistere agli spettacoli di Giacomo Bonagiuso. Lo ammetto.

Una fresca e ventosa sera d’estate, a Selinunte, ricerco con lo sguardo la collocazione del palco e ritrovo in un colpo d’occhio la cornice architettonica più imponente che esista, non mi sorprende dunque scorgere solo il palco, alcuna necessità di costruire scenografie articolate. La gente arriva e prende posto a poco a poco. Sul proscenio si provano le luci e dietro le spalle si assiste al sole che lentamente cala sul tempio di Hera, il tutto avvolto da una fresca e profumata brezza marina.

Ad un tratto, i musicisti accordano gli strumenti, è già buio, il ricreato teatro del parco archeologico è pieno, la gente è in piedi, trepidante. Inizia la musica, tre corifee raggiungono il palco ed accennano a canti e balli sventolando bandiere a ritmo di musica: Medèa prende vita.

Quello che mi ritrovo davanti agli occhi però non è solo mito ma storia. Storia d’Italia, di risorgimento, di battaglie combattute col sangue, di valori da tramandare, di ideali per cui combattere. I miei occhi non nascondono lo stupore, il cuore batte mentre la mente cerca di capire: nulla a che vedere con una semplice re-interpretazione euripidea ma urgenza espressiva nata da un febbricitante genio creativo.

La lingua prevalente è la lingua madre siciliana, dichiarata scelta stilistica del regista, non a caso contrapposta all’italiano per sottolineare la diversità.

La scrittura di Bonagiuso è semplice quanto accurata, nessuna parola è fuori posto, ognuna è singolarmente scelta, ascoltata ed infine accostata all’altra per ricreare armonia, pathos ed emozione. Tutte poi magistralmente musicate e ritmate dalla sapiente arte di Riccardo Sciacca, autore delle musiche ed attore dello spettacolo.

Nessuna voce solenne, ma “cunti e i canti”, che ancora uniscono la forma vera d’espressione della tragedia greca ai tempi di Euripide alla più tradizionale forma canzonatoria siciliana, sono scelti per raccontare questa storia.

Le bandiere risorgimentali del regno borbonico, delle brigate garibaldine e del neonato regno d’Italia smettono di sventolare per lasciare la scena all’ingresso di Medea, sotto le vesti di una straniera in terra straniera. Sulle spalle porta un giogo, ricolmo del peso delle sue origini, della sua diversità e del suo stesso destino. Canta nel nostro dialetto più arcaico le sue vicende. Mostra al pubblico, a piedi nudi sul proscenio, ciò che porta con sé. Emerge dalla sua storia, prima ancora che il racconto di una madre, quello di una donna straniera, malvista e non compresa, violentata, tradita e poi scacciata.

Dopo di lei, è il turno di Giasone: veste abiti di guerra, è imponente, anche lui canta di sé tronfio dei suoi onori. Ma la musica cambia, nella lingua e nei toni. Intima a Medea la sottomissione, la resa, la rassegnazione facendo leva sull’essenza maggiormente interiore di ogni donna, la propria maternità.

Il movimento, si sa, è l’essenza del teatro. Ed è proprio attraverso i gesti e le espressioni che i personaggi suscitano pathos. Medea, si agita, combattuta cercando di dipanarsi tra ciò che è bene per sé e ciò che è bene secondo il sentire comune. Ed è questo il momento in cui prende vita il dilemma euripideo, vivido, attuale, universale: scegliere tra il valore del proprio orgoglio, della propria dignità, delle proprie origini contrapposto al prevalere del bene altrui, anche quando “altrui” si riferisce alla parte più viscerale di te, fino al sacrificio estremo dei suoi propri figli.

Il pubblico è attonito, Medea ci ha instillato il tarlo del dubbio, quello che t’impone di ascoltare tutte le ragioni prima di ingenerare il giudizio. Quello che sconvolge la verità assoluta che ognuno di ha saldamente costruito nelle proprie convinzioni per lasciare posto all’ascolto di un’altra versione, anch’essa inspiegabilmente possibile e drammaticamente considerevole.

È proprio a questo punto che la scena s’interrompe per lasciare la parola al narratore, personaggio anch’esso della vicenda, non voce fuori campo. Gli presta voce e corpo lo stesso Bonagiuso. Entra anche lui a piedi nudi, solleva con le proprie mani la terra, guarda il pubblico dritto negli occhi mentre nella lingua del popolo esorta a fare attenzione all’importanza delle parole. Lui ne usa di semplici, ma prega gli astanti di non banalizzarle, mai. Mette in guardia contro la potenza della parola che ingenera malintesi, mette distanze, ottunde le menti nel momento stesso in cui tenta di convincerle.

E fa rimandi storici, storie concrete, vissute dai siciliani all’alba dello sbarco di Garibaldi, parla di promesse fatte con le parole, di ideali costruiti da racconti che tragicamente però oscuravano le menti da una realtà molto diversa, fatta di sangue versato dai nostri conterranei sulle saline di Marsala combattendo forse per un salvatore o forse per un invasore anch’esso straniero.

Nella mia mente qualcosa prende forma, un fil rouge inizia a legare gli eventi, ed è proprio a questo punto che mi rendo conto che lo spettacolo cui sto assistendo è molto di più di una accurata reinterpretazione di una tragedia greca, neanche uno spazio in cui le vicende risorgimentali si tessono armoniosamente al dramma di Medea, ma l’autore si serve delle due vicende per fare da tela a sentimenti di estraneità, di oppressione, di dramma e di rinascita.

Le luci riportano l’attenzione sulla scena, Medèa vive il suo dramma, a suon di musica, a ritmo di percussioni su strumenti improvvisati, ora su oggetti, ora sul pavimento, ora sul petto del suo Giasone, intonando un lamento che parte dalle sue viscere ed arriva alle nostre. In questo momento, la distanza tra le ragioni del cuore e le ragioni della mente aumenta al punto da generare l’angoscia che precede la lucida vendetta.

I canti tornano concitati, rivendicano con linguaggi diversi ognuno le proprie ragioni, i toni si innalzano, il dramma si consuma. Medèa sceglie, si vota alla vendetta.

Ancora una volta in un momento di immenso coinvolgimento emotivo, si introduce il narratore. A mettere in guardia stavolta il suo pubblico sulla potenza della vendetta e sulle talvolta irreparabili conseguenze che questa porta con sé soprattutto quando è congegnata da mente femminile. Il narratore stavolta non interrompe la scena, ma la racconta e ne esplicita i sottesi. Sul palco Medea si adorna di gioielli scintillanti, intona profani canti greci e miscela pozioni avvelenate con cui intingerà le vesti di Glauce. Il greco antico è stilisticamente usato solo come lingua di vendetta, Medea la rivolge alle erinni allontanandosi dai sentimenti umani, creando il paradosso tra la suggestiva maestosità del greco antico, madre della nostra stessa lingua, ed il sacrilego scopo per il quale è impiegata.

La scena si sposta quindi alla corte di Creonte, sotto gli occhi impotenti di Giasone si compie la vendetta della straniera. Giasone, sconvolto, è in preda alla disperazione. Vive la sua tragedia, il dramma della sua vita e della sua stirpe investito per la prima volta dai suoi sentimenti che prendono il sopravvento sulle sue convinzioni. Le erinni lo contengono mentre il canto del suo delirio si esprime per la prima e unica volta nella stessa lingua dell’odiata consorte, a cui è accomunato ormai solo dalla sventura.

È Medea l’ultima a uscire di scena, riportando sulle sue spalle il giogo, ricolmo ormai solo del peso della sua schiavitù, del suo dolore e del suo ineluttabile destino.

Le luci calano, mi volto e un istante prima che le mani regalassero un lungo scroscio di applausi vedo gli occhi della gente ancora attoniti. Non riesco a parlare, nella pancia un vortice di emozioni e sulla testa un fruscio di pensieri. È questo che ti regala il teatro di Giacomo Bonagiuso. Ed è ancora più sorprendente sapere che i suoi attori sono espressamente dei non- professionisti che sono arrivati a dei livelli eccelsi grazie al sapiente riconoscimento e poi lavoro di un grande Maestro che li ha seguiti e accompagnati in questo percorso.

È per questo che, a io avviso, chi non l’abbia ancora fatto, deve andare a vedere “Medea, Arcana Opera in canto”. E presto.

Grazie a questa straordinaria compagnia di teatro di ricerca per aver regalato al pubblico una nuova grande opera che rimarrà pietra miliare nel teatro siciliano.

Giordana Safina

foto di Nino Di Maio

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