​“Mèdéa, arcana opera in canto” Giacomo Bonagiuso propone la versione in lingua siciliana

L'originale adattamento approda domenica 25 maggio al Teatro Selinus di Castelvetrano

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
23 Maggio 2025 12:00
​“Mèdéa, arcana opera in canto” Giacomo Bonagiuso propone la versione in lingua siciliana

Domenica 25 maggio, con inizio alle ore 21, andrà in scena al Teatro Selinus di Castelvetrano lo spettacolo scritto e diretto da Giacomo Bonagiuso “Mèdéa, arcana opera in canto”, una riscrittura in lingua madre, il siciliano arcaico, interamente cantata, della Medea di Euripide, con ambientazione risorgimentale. L’ingresso sarà libero nei limiti della capienza del teatro. È possibile prenotare allo 0924/907612.

Lo spettacolo si avvale del Patrocinio dell’Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, che lo promuove dell’ambito del progetto “Lingua Siciliana e Aurtonomia”, e del patrocinio del Comune di Castelvetrano che ha concesso i locali del Teatro.

Le musiche originali sono firmate dallo steso Giacomo Bonagiuso, da Riccardo Sciacca e da Francesco Less, gli elementi scenici sono di Maurizio Marchese, i costumi di Enza Genna, gli arrangiamenti di Francesco Less, e il mixaggio di Mariano Tarsilla.

In scena: Roberta Scacciaferro (Medea), Francesco Less (Giasone), Giovanna Russo, Emanuela Lombardo ed Aurora Di Nino (Corifee), Matilde Fazio e Giacomo Bonagiuso (narratori).

Perché riscrivere una Medea oggi?

La tragedia di Medea è una tragedia esemplare. Euripide scrive e mette in scena una trama che non ha soluzione, uno scontro tra irragioni che conduce all’epilogo estremo. Irrisolto e Irrisolvibile sono i poli del tragico: e questo è noto. Nella tragedia spesso non ci si muove in una dialettica tra virtuosi e malvagi ma, a tratti, lo spettatore è condotto a stare con ogni fazione, con ogni ragione, con ogni irragione, pur nel distacco dall’esodo, spesso atroce.

Medea che, straniera, cerca vendetta e giustizia, mischiando il sapore dell’una nel colore dell’altra, e (s)cambiando la carne dei figli per carne dell’empio Giasone, al

punto di negarne anche il corpo per le esequie, descrive in modo magistrale ciò che il teatro greco ha consegnato alla contemporaneità. Più del mito che argomenta, e descrive, la tragedia si dipana nel “canto del capro espiatorio” che, pur non indulgendo nella visione di orrido e nefasto (Aristotele), incute catarsis in chi è condotto a stare “dove non è concesso star fermi né muovere” per dirla con Sofocle.

Ecco perché il contemporaneo ha necessità della “carne” del tragico greco, per derivare in essa nuove arterie e nuove ricerche. Dall’assunto che la tragedia mette in scena l’irrisolvibile, siamo stati tentati a tradurre questa insidia sullo sfondo di una questio irrisolta per antonomasia: la questione meridionale. Che chi fa ricerca teatrale nelle viscere della provincia siciliana sente come tema estremo e dominante della propria identità di teatrante.

Perché scrivere una Medea in lingua madre (siciliano arcaico)?

La lingua è espressione di un contesto, e di uno sfondo. Abbiamo pensato a riscrivere la Medea nelle viscere della irrisolta questione siciliana, ambientandola nell’epoca principe in cui tale questione è nata: il risorgimento e il conseguente mitologema garibaldino. Ci è sembrato che il tema dell’estraneo, del non integrato e del non accolto – oggi tema geopolitico – fosse un tema ancor prima etnico, cioè siculo in senso storico. La Sicilia e il suo popolo furono annessi al Regno Piemontese, in un moto insurrezionale pilotato da forze inglesi e assecondato dalla monarchia sabauda, mentre il mito garibaldino nelle campagne mai davvero si rivelò essere ciò che promise.

La terra ai contadini non solo non fu data, ma le esecuzioni sommarie divennero tema repressivo e reazionario. La rivoluzione divenne prestissimo reazione. E la Sicilia, come Napoli, fu annessa ad un regno straniero.

Stranieri e costretti in uno Stato ostile e distante, i siciliani furono coscritti per diventare esercito a difesa di una causa ignota e violenta che mai coinvolse alcuno nella storia ottocentesca. È in questo contesto di ferita storica che abbiamo riscritto Medea, che è l’opera principe che mette in scena il tema dello straniero. Medea, siciliana, si innamora di un ufficiale garibaldino e si sradica da terra, cielo, lingua e canto, per trovare terre, cieli, lingue e canti diversi, inconciliabili, nemici.

L’hospes si fa hostes.

Perché una Medea musicale e cantata?

Che l’opera sia cantata è una derivazione necessaria delle scelte fatte. Prima un omaggio ad Euripide e alla tragedia, che cantata era, e non prosastica, e poi un sugello dello scontro linguistico tra Giasone e Medea che si fa scontro tra la ragione di Gorgia e quella di Carlo Martello, tra la musica a canone di matrice d’Oc e d’Oil e la tamurriata meridionale. Lo scontro tra Medea e Giasone, irrisolvibile, si fa pretesto per uno scontro tra lingua e tra canto.

Ecco, in sintesi estrema, le ragioni di questo testo, di questa riscrittura e di questa ricerca teatrale da parte di una compagnia giovane e giovanissima e di un regista che ha fatto della provincia il luogo di elezione del proprio fare. 

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