Faro di Posizione: In ognuno di noi arde un rubedo

Bia Cusumano ci parla della poesia come alchimia del dolore e della salvezza

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
18 Maggio 2025 08:00
Faro di Posizione: In ognuno di noi arde un rubedo

Ho letto Rubedo. Alchimie poetiche di Giulia Luppino come si leggono le confessioni che non si possono ignorare. Quelle che arrivano in punta di cuore e poi restano lì, nel punto esatto in cui la pelle si fa più sottile e il respiro più corto. Rubedo non è solo un titolo: è una dichiarazione di percorso, un atto trasformativo, una verità carnale che brucia e plasma. In alchimia, il rubedo è il rosso: il tempo della combustione finale, della trasfigurazione ultima. Nella poesia di Luppino, è il momento in cui l’amore diventa ferita, in cui il linguaggio si fa carne, e la carne si fa verso.

Mi è bastato leggere i primi componimenti per rendermi conto che Rubedo non è una raccolta: è un viaggio di attraversamento. Un passaggio nel buio che non cerca luci artificiali. È l’esito poetico di chi ha scelto di non avere paura di guardare l’abisso, e soprattutto di guardarci dentro con la tenerezza feroce di chi non si rassegna. Come scrive: “Questa poesia / non la scriverò / perché fa male / e brucia / solo a pensarla”. Eppure, poi la scrive. La scrive lo stesso. Perché il gesto della parola, in questa raccolta, non è mai estetico, ma sempre necessario.

Il dolore psichico – in tutte le sue declinazioni: assenza, solitudine, perdita, memoria amorosa, esilio esistenziale – è il cuore pulsante del libro. Ma non è mai raccontato con compiacimento. È un dolore scavato, esplorato, a tratti sezionato con precisione chirurgica. È un dolore con dignità, con voce. Non viene abbellito, né nascosto dietro simbolismi oscuri: si manifesta in forme limpide, spesso quotidiane. Una lampada impazzita, una scarpa che si buca, un piatto sporco, un divano nel tramonto. Eppure, tutto vibra di profondità: “Ti odio / come se le mie scarpe non potessero / camminare via da te senza bucarsi”.

Questa è la potenza di Luppino: rendere straordinaria la materia più fragile della vita ordinaria.

Nel mondo che racconta, l’amore non salva, ma non smette mai di pretendere la propria forma. È un amore presente anche quando assente, vivo anche quando smarrito. È una corrente sotterranea, spesso diretta a un “tu” che esiste solo nell’evocazione. È un’assenza che si fa presenza invasiva. Come nel testo “Vorrei essere per te”, dove l’amore è simultaneamente desiderio, nostalgia e impossibilità: “Vorrei essere per te / esattamente e solo / tutto quello che / tu sei per me.” Ma non c’è solo l’amore mancato. C’è anche la rabbia, la lucidità che graffia, la ribellione dolce e dolorosa di chi ha amato troppo e ora prova a ricomporsi per sottrazione.

Un tema chiave della raccolta è anche la frantumazione del tempo. Non c’è sequenza, non c’è prima né dopo. Il tempo qui è un campo di battaglia emotiva, una torsione. Luppino lo cancella, lo distorce, lo nega: “Tempo / che non conta, / che non esiste / in parallelo o in serie…”. È come se il passato non passasse mai e il futuro fosse una promessa che non arriva. Rimane un eterno oggi, fragile e senza rete, che chiede solo di essere sentito.

Lo stile è coerente con la materia: versi brevi, taglienti, densi di immagini. Punteggiatura ridotta, ritmo sincopato. Ogni poesia si legge come un respiro trattenuto, un singulto, un gesto di resistenza. È una voce che non chiede permesso, ma neppure urla. Parla con una chiarezza spaventosa, con un pudore che non si veste di reticenza ma di nudità consapevole.

Luppino fa della parola un atto corporeo: le sue metafore non sono decorazioni, ma esperienze sensibili. I suoi testi sono abitati da oggetti e corpi: gabbiani, sigarette spente, formaggi, baci, pelle, mani, piatti, lenzuola. È come se la scrittura stessa nascesse dalla carne, come se ogni parola fosse passata prima dal sangue.

La sua è una poesia che ricorda, per intensità e verticalità, alcune pagine di Alda Merini, ma anche per quella capacità di raccontare la malattia dell’anima come qualcosa di universale, e non come eccezione. Una poesia che non isola, ma connette: “Eppure esisti, stupido sordo testardo e vigile, / indimenticabile, a scrivere versi dentro di me.”

Ci sono versi che restano, che non ti lasciano, che ti interrogano. E questo è il segno di una scrittura riuscita, compiuta nel suo scopo più alto: spalancare il mondo interiore per offrirlo come specchio all’altro.

Rubedo è un libro da leggere in apnea, lasciando che ogni parola affondi nella carne e ne riemerga una forma più limpida di noi. Non consola, ma accompagna. Non cura, ma rivela. Non rassicura, ma testimonia. Ed è proprio questo che ci salva: non la fine del dolore, ma la sua verità espressa.

Ecco cos’è, per me, la poesia di Giulia Luppino: una forma di alchimia etica e affettiva. Un’offerta. Un rosso che brucia, ma che – nel bruciare – illumina.

Bia Cusumano

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