Faro di Posizione. ​Il vero olocausto è non abitare lo sguardo altrui

Bia Cusumano nella sua consueta rubrica ci propone un incontro con Christine Lavant

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
23 Gennaio 2024 08:00
Faro di Posizione. ​Il vero olocausto è non abitare lo sguardo altrui

Si avvicina la giornata della memoria, quel 27 gennaio che ogni anno tutti “a capo chino” commemoriamo. Il male non ha certo bisogno di clamore né di troppe parole. Quel 27 gennaio 1945 furono aperti i cancelli di Auschwitz e l’orrore fu rivelato al mondo tutto come se si potesse affermare che prima nessuno ne fosse consapevole. Ogni anno anche io mi fermo a ricordare e scrivo il mio doloroso canto sull’orrore che fu. L’ho fatto ricordando i protagonisti dell’Olocausto scrivendo di uomini e donne che hanno portato a vita il marchio indelebile di quella follia umana. Questo anno inciampo in una frase che è potente e allo stesso tempo una caustica provocazione di una poetessa austriaca poco nota ma straordinaria: Christine Lavant.

“Perché se esistono gli angeli, a nessuno di loro spetta il compito di impedire che sulla terra avvengano cose che dovrebbero accadere solo nell’inferno più profondo? Ora scrivo queste cose usando parole normali, le scrivo come qualsiasi altra cosa, ma dovrei togliere dai muri una pietra dopo l’altra e scagliarle contro il cielo ad una ad una, affinché esso si ricordi di avere dei doveri anche nei confronti di chi sta sotto di lui. Forse con ognuna di queste parole finisco per dannarmi, ma il fatto che io scriva alla fin fine è una cosa prestabilita. Alcuni devono costruire ponti, altri dare alla luce bambini o tradurre in suoni le cose che hanno dentro di sé, da qualche parte qualcuno forse dipinge un quadro e a ogni pennellata si odia di più, ah, noi tutti andiamo nella direzione in cui siamo stati lanciati.

Pietre! Pietre! Pietre!” Le parole sono tratte da Appunti da un manicomio che Christine scrisse dopo aver trascorso sei settimane in manicomio, in cui lei stessa chiese di essere internata in seguito a un tentato suicidio.

Chi è Christine? La scrittrice nacque nel luglio 1915 in Carinzia, in un remoto villaggio presso St. Stefan, nella Lavanttal. La sua famiglia era estremamente povera: il padre lavorava in miniera e c’erano già altri otto bambini. Più tardi assunse il nome della valle natia, dove risiedette costantemente, con la sola eccezione di un biennio, fino alla morte avvenuta nel 1973. Vinse numerosi premi (fra cui il Georg Trakl-Preis per la lirica nel 1954 e nel 1964 e il Große Staatspreis für Literatur nel 1970), ma non trovò mai, come scrisse Thomas Bernhard, riposo né pace.

Christine è la poetessa che dà voce agli ultimi, ai poveri, agli invisibili, agli emarginati, ai pazzi. La poetessa che ha l’ardire di scaraventare rabbia e livore contro il Cielo per il male atroce che viene compiuto sulla terra, ingiustamente, senza alcuna colpa se non forse quella di non aver diritto ad essere ascoltati.

Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!

O sarai creatore di ciò che è cadavere e lo rimane

e si unisce alla terra

ben più volentieri che al cielo.

Vai, continua ad ammantare i gigli

corrompi pure i passeri con il miele vergine

io vivo di ruggine e muffa.

(…)

Mi piace vivere nell’argilla

per diventare pietra e tuttavia

mai esserti di peso.”

Christine dichiara con forza temeraria e ribelle, la sua parentela con i vinti, con gli ultimi di ogni tempo storico, levando una rabbiosa protesta contro la miseria. Solo così, superando ogni timore reverenziale nei confronti di un Dio cristiano che pare assente e silente e ogni forma di paura di castigo, per essere blasfemi nei suoi riguardi, si potrà condividere il pane con i marginali, gli ultimi, gli invisibili, perfino i pazzi.

Voglio condividere il pane con i pazzi,

ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,

anche la campana nel cuore,

là, dove il colombo fa il nido

e trova un minuscolo asilo

nella selva sulle acque.

(…)

Imparerò a volare e a nuotare

e lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietra

lascerò la malinconia coricata nella madreperla,

ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.

Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,

le mie ali sono volate oltre il coraggio,

che s’era fatto carico dell’errare.”

La vita della nostra poetessa è stata segnata personalmente dalla malattia e dalla miseria. Già da piccina sopravvisse ad una forma violenta di tubercolosi. Fu colpita in seguito da scrofolosi, patologia che la condusse quasi alla cecità. Ne conseguirono effetti deformanti sulla pelle e sul viso. La sua femminilità fu devastata. Lei, ultima fra gli ultimi, defraudata della sua bellezza di donna si ricongiunge idealmente a tutti gli ultimi della terra. E quanto invisibili, deformati, inascoltati, defraudati della loro dignità di esseri umani erano i reclusi dei campi di concentramento? Lì, dove era Dio? Primo Levi scrittore che patì sulla propria pelle, l’orrore dell’Olocausto, solleva con lo stesso lucido e disincantato ardire la sua rabbia verso il Cielo e cerca la stessa risposta di Christine.

Risposta che Levi non trova: “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco ma non la trovo.” Neanche la poesia, la letteratura trovano “adeguate risposte”? Entrambi, Christine Lavant e Primo Levi cercano attraverso l’opera letteraria, attraverso l’eco delle parole, dei versi, della scrittura di attingere senza mediazioni all’Essere, all’Assoluto salvifico, oltre perfino lo stesso linguaggio. E’ un tentativo disperato cercare salvezza, perdono, assoluzione da quel male che si annida e contorce in ogni nato su questa terra.

I poeti però non possono firmare alcuna resa. Sanno bene d’ essere pasto per gli altri, di doversi fare carico del male altrui per essere degni d’essere uomini.

“Così io sono casa e corte e impalcatura del pane e a volte anche una segretissima collina dove la mia ostilità produce frutti oscuri affinché i santi possano diventare zingari.”

La scrittura cerca salvezza in una casa che luogo fisico non è in cui i santi possano diventare zingari e viceversa. Pertanto anche gli zingari, gli esclusi, gli ultimi, gli invisibili, i dimenticati, i profughi, gli emarginati, i lebbrosi della terra, possano essere santi. E in questa accezione non vi è alcuna identità o ideogia cristiano-cattolica. Vi è un urlo di umanità disperata, una preghiera laica, una estrema elemosina di carezza, di abbraccio, di sguardo in cui potere abitare.

Dov’è la mia parte di luce, Signore? Anche io voglio arrivare a casa! Il mio bastone da ciechi è andato alla deriva la luna piena è calata intempestiva possente cresce il dorso dei monti. Da lungo tempo passo notti insonni e, frutto ormai andato per stanchezza, potrei mettere al mondo la morte ogni volta che il respiro grida in me, fa che non duri in eterno! Dammi la luce che mi porta a casa pur se acuta trafigge il cristallino opaco e la memoria mi affligge. Sai che non mi serve una casa celeste, mostrami il rifugio di un topo prima che mi lapidi il giorno.”

Ecco la casa che si chiede al Cielo, a Dio, al Fato, a chiunque possa ascoltare. Non una casa celeste, ma il rifugio di un topo. Basta una tana nascosta, così umile da essere a contatto con le viscere della terra, così infinitamente piccola da essere bastevole anche per un topo, purché il male non giunga, non affligga, non tormenti, non devasti. Ecco la luce che si implora, una luce che, nonostante la memoria non possa dimenticare, possa donare un ristoro, un riscatto laico che conduca in un Altrove in cui la mano dell’uomo non possa scagliarsi contro il corpo di suo fratello.

Ecco il vero Olocausto. Sì, deve essere questo il vero annientamento dell’essere umano: non essere degni di abitare lo sguardo altrui. Essere meno di una cosa, meno perfino di un topo, indegni di qualsiasi ascolto, di qualsiasi nome. Auschwitz è il luogo del non nome. Non a caso i deportati erano un numero, una matricola tatuata orribilmente sull’avambraccio. E senza nome non si è uomini, non si possiede anima che tesse i giorni, non si ha diritto alla dimensione del tempo, non si è portatori di storie.

Non vi è salvezza, né cielo, né Dio, né assoluzione. Non vi è possibilità di ascolto, di dialogo, di parola. Auschwitz è altresì la negazione del linguaggio, dell’ordito del tempo storico e universale. E’ l’annientamento di ogni umanità possibile. Eppure la Poesia torna madre non abbandonica che nutre, utero che alimenta e partorisce dallo strazio, mani giunte per invocare perdono. Perché se gli uomini sono sempre come diceva Quasimodo, quelli della pietra e della fionda e uccidono, distruggono, annientano, senza amore, come hanno ucciso i loro padri, perpetrando la storia di Caino e Abele, se gli uomini ripetono sempre lo stesso copione, incapaci di cambiare, duri e spergiuri davanti ogni patto di fratellanza umana, la Poesia conduce la nostra Christine e ogni poeta a scrivere e sottoscrivere questi ineludibili versi:

Vorrei guardare bene negli occhi tutte le offese,

e dire loro che niente al mondo è privo di salvezza

e che nessuna di loro mi ha offeso davvero,

perché ogni volta lo specchio dell’umiltà

cresceva dietro i loro colpi.”

Se il vero Olocausto è non abitare lo sguardo altrui e si è compiuto ad Auschwitz durante la seconda guerra mondiale, si compie in Russia e in Ucraina, si compie in Israele, si compie in ogni dove della terra in cui ogni uomo viola, sopraffà, lede, tortura, annienta suo fratello, gli nega ascolto, voce, dignità, storia e amore duraturo come lo definiva Christine, la poesia continua a invocare perdono per tutte le offese della storia. La Parola invoca perdono per l’umanità tutta perduta, alla deriva, straziata dall’orrore di carri armarti, di bombe, di kalashnikov.

La poesia continua a dire “che niente al mondo è privo di salvezza”. Trovo incontrovertibili, assoluti, magnifici e struggenti questi versi di una indifesa e audace, forte e cagionevole, povera e immensa poetessa austriaca. E davanti questi versi, perfino l’orrore del 27 gennaio pare assopirsi per un attimo. Appena un attimo, per tornare a respirare da quel male sadico, mortifero di cui è sempre capace l’essere umano. Cala il silenzio sulla storia, resta ultima e potente la Poesia.

Se mai ci sarà assoluzione e salvezza dunque passa da lì. Dalla Bellezza che sopravvive tenace ad ogni orrore, che vince il nulla, il deserto, le macerie, che s’eleva come canto di perdono davanti e dentro ogni offesa, ogni colpo mortale della vita.

Ecco l’invito ultimo della nostra poetessa a ciascuno di noi, in una lirica rivolta alla Terra:

(…)

Terra, accetta la mia lingua,

terra, ti prego, e le mie labbra!

Spargi la voce sotto i fiocchi di neve

racconta dell’amore caldo e duraturo.”

Ancora, nonostante l’orrore, i poeti sanno essere i militanti attivi e resilienti della Bellezza. La Poesia soltanto può raccontare di un amore caldo e duraturo. Ancora alla terra può rivolgersi il poeta affinché la propria voce possa essere ascoltata. “La poesia è uno sguardo assoluto sulla realtà, sul mondo interno ed esterno” come dice Alessandro Ramberti, poeta del nostro tempo. E se gli uomini sono incapaci di accogliere lo sguardo altrui, la Poesia restituisce e riscatta dall’orrore, oggi come ieri. In questo oscuro presente come in quell’oscuro, orribile passato.

Grazie Christine, grazie poetessa ribelle e mistica per essere stata la voce degli ultimi della terra, dei dimenticati, dei miseri, degli zingari, dei senza -voce, dei vinti. Grazie donna strapazzata da tutti gli spiriti celesti, come di te disse lo scontroso scrittore Thomas Bernhard che si occupò della tua Musa.

Bia Cusumano

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