Faro di Posizione: ​Il mondo visto dagli occhi di un bambino

la magia di Eagle Street di Fabio Bavetta nella recensione di Bia Cusumano

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
07 Aprile 2024 08:00
Faro di Posizione: ​Il mondo visto dagli occhi di un bambino

Il cerchio si chiude, la ruota gira e questo è tutto.”

Così si conclude il romanzo di Fabio Bavetta, giunto tra le mie mani attraverso gli strani giri che la vita compie quando qualcosa deve arrivare a te. Ad inizio presentazione di una silloge di poesie, mi si avvicinò un amico pittore con un libro tra le mani, dicendomi con quella sua meravigliosa cadenza francese: “leggi questo libro, è davvero emozionante, ti piacerà, ne sono sicuro.” Ringraziai l’amico gentilmente e guardai il libro che mi venne posto tra le mani. Già i colori della copertina mi colpirono.

Per una strana associazione di idee, mi venne in mente il dipinto di Van Gogh, Notte stellata. Poi immergendomi nel romanzo riuscii anche a capirne il perché. Intanto custodii il prezioso dono, promettendo che lo avrei letto presto, pur tra mille cose. Le promesse si mantengono sempre. Ma evento sorprendente, dopo pochi giorni, mi giunse un messaggio in privato da parte di un altro carissimo amico che mi suggerì la lettura dello stesso testo, questa volta invitandomi anche a parlare con l’autore.

Sì, non deve essere una coincidenza se per ben due volte, due diverse persone, non sapendo nulla l’uno dell’altro, mi hanno invitato a leggere Eagle Street. E poi, non sono donna che crede nelle coincidenze, semmai nei segnali. Mi decido dunque a contattare l’autore, ad incontrarlo e ad ascoltare se pur brevemente il perché abbia voluto affidarmi il suo figlio di carta stampata. Perché io? – penso - giungendo al luogo dell’incontro. Ed ecco lo scrittore, uomo cortese, molto colto, innamorato della parola, porgermi avvolto in una elegante confezione il suo romanzo con dedica. Gli rivolgo qualche domanda sulla sua storia personale e sulla storia di questo testo e prometto, sorseggiando una tazza di caffè al ginseng che leggerò con cura il suo romanzo.

Porto con me il libro ovunque. Questa è una mia consuetudine. A scuola in classe, in cucina durante i pasti, in camera da letto, in macchina, dentro la borsa da lavoro. Insomma per settimane diventa una sorta di talismano, parola che poi ritroverò piacevolmente tra le righe del testo, finché non giunge il momento tanto atteso. Apro le pagine di Eagle Street e la sua energia vitale mi rapisce e cattura. Accade così solo con i libri che ti toccano le corde del cuore, quelli che ti scendono dentro e restano impigliati dentro le fibre.

I libri di cui ti innamori alle prime pagine e divori senza sosta fino a giungere alle ultime. Quelli che ti lasciano in bocca il sapore agrodolce della acetosella. I libri scritti bene, così bene che ti faranno compagnia per il resto della tua vita anche se divorati in poche ore. Fabio Bavetta è al suo secondo romanzo. Tra il primo e Eagle Street vi è un buco temporale di più di dieci anni. Un vuoto di silenzio in cui la vita lo ha inondato di altre impellenti necessità ma la scrittura è rimasta accovacciata dentro lui come quella gatta siamese presente nelle pagine del suo romanzo.

Fabio è un chimico dalla carriera brillante, oggi affermato farmacista, padre amorevole, scrittore raffinato. Il suo romanzo è il racconto incredibile di una infanzia semplice ma straordinaria. Eʹ il mondo guardato attraverso gli occhi di un bambino, di quel bambino che poi è diventato un ragazzo, un giovane uomo, un professionista. Un bambino che ha vissuto una infanzia fatta di prodezze fantasmagoriche, tra calzini che scendono giù alle caviglie, prati sconfinati, marciapiedi assolati, alberi di carrubo e eucalipti.

Una infanzia intessuta di amici fidati e amati. Il testo potrebbe definirsi un romanzo di formazione perché attraverso la prova della “Casa Abbandonata”, il mondo puro, innocente e meraviglioso del bimbo- protagonista, dal nome Joe Dooley non sarà più lo stesso. In quello stato di pura incoscienza e incanto tipico dei bambini faranno ingresso la morte, la perdita luttuosa di chi si ama, la ferita che non rimargina, il dolore profondo e la nostalgia struggente. Sentimenti da adulti che si accompagnano misti a consapevolezza e razionalità.

Al pensiero che prende il sopravvento sul cuore, sui sogni, sulla immaginazione. Joe sarà catapultato in questo mondo brutalmente, insieme ai suoi più intimi amici, compagni di giochi spensierati immersi in una vegetazione che ha il sapore della nostra Sicilia. In questo romanzo tutto sa della nostra Trinacria. Dai profumi, agli odori, ai sapori, alle movenze degli adulti, ai riti che si compiono lenti e abitudinari all’interno di una piccola comunità. Dal caldo torrido dell’estate in cui si svolge la vicenda, ai tramonti affocati di rosso e al vento afoso e tagliente della nostra terra. Tutto canta sotterraneo la nostra Sicilia, perfino i cibi e la descrizione dei luoghi tranne che poi questi luoghi abbiano nomi inglesi così come li hanno i nomi dei personaggi e il titolo stesso del romanzo.

Strana dissonanza a cui ho provato a dare la mia spiegazione. Se è vero che tutta la narrazione è filtrata attraverso lo sguardo di un bambino che poi continua a vivere dentro il protagonista pur diventato adulto, questo strano effetto di apparente stridore lo si deve proprio alla magia del mondo dei bambini che sovverte per natura non solo le prospettive degli adulti ma anche e soprattutto la loro lingua. Lo sguardo che dà vita al romanzo è quello di un bambino di otto anni che percepisce, sente, vive, soffre, sogna come un bambino e non come un adulto. Per cui tutto è visto dal suo occhio e narrato dalla sua lingua, capace di trasformare un rudere in una casa stregata, un topo appeso allo spago, in una strana e inspiegabile diavoleria e una avventura scanzonata e irriverente nei confronti del mondo degli adulti fatto di regole, convenzioni, doveri, nell’esperienza più incredibile e allo stesso tempo traumatica della propria vita.

Non credo si celi in questa scelta linguistica anglofona dell’autore la necessità di proteggere persone realmente esistite o fatti realmente accaduti. Vi è di più, inevitabilmente. Lo stesso risultato lo scrittore avrebbe potuto raggiungerlo cambiando nomi a persone, cose, luoghi scegliendo la lingua italiana. Questa dissonanza apparente è invece una chiave di accesso, consegnata come un talismano dai poteri magici, ai lettori. Insomma se vogliamo leggere il libro, dobbiamo svestire i panni di adulti.

Dobbiamo riconnetterci al nostro io bambino, rintracciarne emozioni, desideri, sogni, pulsioni. Solo se lasceremo il nostro rigido essere adulti potremo accedere al mondo di Eagle Street e lasciarci accadere quello che accadde ai protagonisti del romanzo. Solo così, sarà possibile farci attraversare anche dall’amaro disincanto che verso i trentacinque anni, dice il nostro scrittore, sopraggiunge. Perché per un bambino tutto è possibile. Una strana energia lo anima. Il bambino possiede il potere magico di riuscire in tutto, di dominare il proprio mondo, di essere lui il costruttore di ogni giorno, senza temere d’ essere schiacciato da responsabilità, ansie da prestazione, corsa alla carriera, doveri impellenti.

L’infanzia è il regno in cui nulla è impossibile e in cui l’amicizia è filo sacro di appartenenza, mondo protetto e sicuro, rifugio e casa. Gli amici sono quella casa mobile che ti porti sempre appresso. Ma lo scrittore avverte che entrati nel mondo degli adulti, qualcosa si sgretola, qualcosa si perde, qualcosa si affievolisce e allenta. I protagonisti di Eagle Street sono tutti bambini. Eppure in loro si annidano gli adulti che saranno e poi capovolgendo la prospettiva, quasi in un gioco mirabolante di specchi, negli adulti che diventeranno resteranno per sempre i bimbi che furono, legati a doppia mandata dalla tragedia terribile che si consumò appena usciti fuori dalla “Casa Abbandonata”.

Da allora in poi nulla sarà più come prima. Si consumeranno i sogni, l’ingenuità, il coraggio che sa di incoscienza, l’amicizia intesa come fratellanza assoluta e inviolabile. Perfino lo scorrere del tempo sarà diverso. Assumerà una nuova e amara connotazione. Non sarà più il tempo innocente di quella estate del 1976. La vita andrà inesorabilmente avanti con i suoi traguardi e le sue sorprese più o meno piacevoli, con le sue gioie e i suoi strappi improvvisi. Nulla sarà più come allora.

Il mondo dell’infanzia sarà compromesso dall’arrivo precoce di quello degli adulti. Eppure resta la capacità creativa dell’immaginazione e della scrittura a risarcire una vita a volte ingiusta o brutale. La scrittura continua ad elevarsi a miracolo assoluto perché crea, ricrea, rifonda, dona senso, restituisce ciò che è stato perduto attraverso il suo potere salvifico. Perfino la morte può dialogare con la vita. Perfino le perdite atroci possono trovare un lenimento, una carezza ristoratrice attraverso la parola.

Siamo giunti alla chiusa del romanzo: “Il cerchio si chiude, la ruota gira e questo è tutto.” Non vi sono altre verità da consegnare ai lettori se non l’accettazione del dolore, la capacità di elaborarlo e renderlo matrice di crescita e consapevolezza. Non vi sono altre possibili soluzioni se non scegliere di andare avanti, abbracciare la vita e viverla con una intensità tale per cui ogni giorno, ogni attimo potrebbe anche essere l’ultimo concesso. Da chi? Da un Cielo sempre presente ma imprevedibile, da un Dio che ama fare le sorprese, da un destino bizzarro ma che ti conduce sempre lì dove sei destinato a tornare. Siamo tutti in fondo un po' Ulisse, in attesa paziente di approdo alla nostra Itaca.

Così il protagonista del romanzo ritornerà nei luoghi della sua infanzia e anche se tutto sarà guardato attraverso lo sguardo di un adulto, potrà fare pace con luoghi, eventi, persone, fantasmi del suo passato. Solo in questo modo sarà possibile accogliere il futuro, andando avanti. La fissità è inevitabile morte. Il perenne fluire e accogliere i cambiamenti è vita. “La memoria è la tua identità. Sei tu.” (Stephen King). Mi piace concludere con la frase dell’esergo del libro.

Perché il cerchio si chiude facendo combaciare la fine con l’inizio, mescolando il tutto in un armonico divenire che ci restituisce alla terra, alla nostra memoria che è la nostra identità. Leggetelo il libro di Fabio Bavetta, così come l’ho letto io, cercando quella notte stellata che ognuno porta impressa nelle fibre della propria memoria. Lì dove il tempo giunge ma non può sradicare chi o cosa abbiamo amato perdutamente, chi o cosa ci ha aiutato ad essere gli adulti che siamo.

Non scordiamoci, però, come ci consiglia tra le righe, il nostro autore, che prima d’ essere gli adulti che siamo, siamo stati bambini; portatori sani di meraviglia, incanto e stupore. Non dimentichiamo o ancor peggio soffochiamo il bimbo che vive in noi.

Bia Cusumano

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