“Ai figli mai amati
e a quelli mai avuti.”
Farfugliava da più di una settimana, seduta sulla sua sedia con lo sguardo fisso nel vuoto, dentro la sua stanza, nella R.S.A. in cui da anni si trovava. I dottori, gli infermieri e gli OSA però non avevano capito da quali sillabe fosse composto quel suono strisciante che le usciva dalla bocca ad intervalli regolari, sia di notte che di giorno. La signora M. non dava tregua. Quella nenia non si estingueva.
“Mamma, nonna è peggiorata - disse Carla - con aria triste. Hanno chiamato dalla RSA e mi hanno detto che è una cantilena continua di suoni emessi senza alcun senso logico. Pur sedata, nonna continua a pronunciare qualcosa di incomprensibile. Sono cinque anni che non varchi la soglia della sua stanza. Esiste la possibilità di perdono, per te, mamma?”
Carla era un avvocato affermato, nel pieno della sua carriera, bella come il sole di mezzogiorno. Diretta, senza perifrasi o eufemismi, arrivava al bersaglio, senza perdere tempo. Quella parola “perdono” era il cuore della questione. E gli affondi di Carla erano in perfetta sintonia con il suo stile, essenziale e poco ridondante. Ma di pane e perdono aveva campato una vita intera Rita finché un bel giorno, armata di tutta la forza che possedeva, aveva messo tutti “in cella liscia”.
Così diceva lei. Da allora, i giorni si erano accatastati l’uno sull’altro, divenendo mesi e poi anni. La signora M. incapace di amare ma capace di fare tutto il male possibile, ad un certo punto s’era ammalata di Alzheimer fino ad accartocciarsi come una foglia secca su stessa. A quel punto era intervenuta Livia, la sorella di Rita, decidendo che la madre fosse affidata alle cure di una RSA. Livia aveva un marito e una carriera da portare avanti e Carla, l’unica nipote della signora M.
era troppo giovane e brillante per farsi carico di una nonna così ammalata. Rita poi, non parlava con la madre da anni. Livia con anaffettiva sicumera aveva provveduto a tutto e fine della storia.
Di cosa parlasse durante le sue lunghe giornate la signora M., se recitasse il santo rosario tenendo la coroncina arrotolata tra le mani, se si alimentasse correttamente, se fosse imbottita di farmaci con dosi da cavallo non veniva mai chiesto agli infermieri o dottori. Di lei, in effetti nessuno voleva sapere nulla. Era stata una figlia scomoda, una madre mai nata e una nonna ingombrante. Certo, adesso la situazione era peggiorata. Carla era rientrata dall’Inghilterra allertata direttamente dalla RSA. Raffinata e colta, con la sua grande capacità di gestire le situazioni complesse provava a solleticare il cuore della madre parlando di perdono.
“Carla, cosa dovrei perdonare - disse Rita - rivolgendo i suoi occhi alla figlia che si muoveva per il grande salone, tirando fuori dalla valigia fresca di volo internazionale, profumi, trucchi, anelli, bracciali, borse, scarpe e indumenti. Cosa dovrei perdonare di preciso io a tua nonna?”
Il silenzio piombò addosso ad entrambe più fitto della nebbia di Londra.
Rita, raccogliendosi i capelli dietro la nuca, incastrando le ciocche rosse dentro un fermaglio nero e sollevando lo sguardo dalla tastiera del pc in cui stava scrivendo il suo ultimo romanzo disse: “Dovrei perdonarle di non essere riuscita ad amarmi? E da quando il non amore è perdonabile come fosse una colpa? Puoi forse costringere gli altri ad amarti? Se non ti amano devi fartene una ragione. Andare avanti, punto e basta. Non puoi pretendere amore neanche dai tuoi stessi genitori che ti hanno messo al mondo.
L’amore, non può essere un obbligo o un dovere. Vorresti che perdonassi tua nonna adesso che neanche sa chi sono? Ormai è una povera larva, Carla. La malattia le ha divorato tutti i ricordi e con quelli anche il male che ha compiuto con metodica precisione nella sua vita a danno di tutti. Se ne andrà da questo mondo con la sua aria innocente e con l’amaro inganno di essere stata lei la povera vittima di carnefici inesistenti. Lei, che ha raso al suolo famiglia, figlie, nipote per l’uomo che amava, (ovviamente non tuo nonno) con la rabbia cocente di non essere amata neanche da lui.
Ma chi può amare una donna così? Carla, la verità è che io vorrei riuscire a perdonare me stessa. Per molto tempo ho sperato tua nonna fosse capace di amarmi e proteggermi solo perché mia madre ma non è così. Le madri come i padri sono esseri umani. Alcuni sono in grado di amare, altri no. Alcuni sono empatici e donativi, altri anaffettivi e patologici. Ecco, tua nonna rientra nella seconda categoria. No, l’amore non lo tramandi con il codice genetico. Ti ho fatto un ragionamento assertivo come quelli che piacciono a te.”
“Mamma - ti prego, replicò Carla - è anziana, ammalata, prossima alla fine dei suoi giorni, neanche con tutte queste attenuanti puoi perdonarla? Sono arrivata da Londra fin qui perché non voglio essere sola per l’ennesima volta davanti la sua sedia. Non voglio ritrovarmi a non sapere cosa dire a nonna tutte le volte che pare accennare a te con qualche strana smorfia. Guarda sempre fissa le mie unghia rosse, sbattendo nervosamente le sue dita scarne sulle mie mani. Forse pensa siano le tue.
Non so davvero cosa altro dirti ma mettiti nei miei panni. È una vita intera che sono tirata da forze contrapposte. Tu sei mia madre, la migliore che io potessi desiderare, pur con i tuoi difetti, il tuo carattere granitico e il tuo amore matto per le parole ma lei è purtroppo mia nonna. Ho vaghi ricordi della mia infanzia quando ancora tra voi le cose funzionavano pur in un equilibrio precario. O almeno è questo che ho sempre voluto credere io. Poi lo strappo, la ferita mortale, l’inganno atroce.
So tutto mamma, sono venuta da Londra anche per questo motivo. Volevo dirtelo da tempo ma sono stata presa dal mio ultimo corso di perfezionamento, le udienze, i clienti, i turni massacranti … Giorni interi trascorsi a studiare. Tu in giro con il tuo ultimo romanzo. Non è poi una vita tanto normale che conduciamo io e te, no? Ma sono un avvocato, mamma, so tutto. Sono andata a ripescare gli atti del processo. Ho letto e riletto con attenzione meticolosa la deposizione di nonna contro te, quelle parole infamanti pronunciate giurando di dire la verità, niente altro che la verità.
So che a causa di quello che lei disse in tribunale, ti fu tolto il mio affido. Sono finita in un tritacarne di giudici, forze dell’ordine, psicologi, denunce, leggi, avvocati. So gli anni di profonda umiliazione che hai subito. So dell’incidente stradale in cui hai rischiato la vita, perdendo il controllo dell’auto in seguito all’ennesima crisi di panico. So che la zia non ha mai fatto assolutamente nulla per aiutarti. So che ti hanno lasciato sola come un cane. Mai una chiamata, mai una visita, mai una mano tesa, mai una vaga traccia di rispetto, cura o affetto.
So tutto. Ho capito i tuoi lunghi silenzi, i tuoi finti sorrisi, i tuoi: “va tutto bene” masticati tra le lacrime. So delle loro feste, vacanze, cene con amici e dei tuoi giorni trascorsi come una lebbrosa nel ghetto dell’abbandono. So che hai inghiottito bocconi di veleno solo per potermi riabbracciare. So tutto e non smetto di pensarci un solo istante. Se dovessero fare a me quello che hanno fatto a te, neanche io credo sarei in grado di perdonare. Per certi torti abominevoli non esiste alcun perdono possibile forse, almeno su questa terra. Ma ora mamma, come vedi, il male si è ricomposto da solo.
Non ha avuto bisogno di alcuna vendetta. La signora M., come la chiami tu, è un perfetto vegetale. È chiusa o per meglio dire rinchiusa da anni in una RSA. È sola. Il marito per cui ha sacrificato tutto è morto. La zia che non ha mai mosso un dito per te, non lo ha fatto neanche per lei. Ha pensato soltanto ai suoi soldi. Vedo di rado mio padre perché so che è stato l’artefice della tua lacerante sofferenza. Se lui non l’avesse coinvolta, forse la nonna non sarebbe riuscita a compiere tanto male e forse io e te non saremmo mai state strappate l’una dalle braccia dell’altra.
Faccio fatica a parlarne ma come vedi sono qui, mamma. Sono a casa tua. Non della zia, non del papà ma a casa tua. Ho trascorso le ultime festività qui con te dopo aver avuto finalmente il coraggio di aprire quel fascicolo e leggere tutti gli atti del processo. Notti intere, credimi, trascorse su quelle orribili carte. Ho compreso quale fosse la verità che tu non hai mai detto. Volevi che non odiassi nessuno, né mio padre né mia nonna né la zia. Sono cresciuta in un mondo diviso a metà ma in pace con tutti.
So, mamma, chi ha mentito, chi ha taciuto, chi ha omesso, chi ha detto la verità. So, perché sono una donna e non più una bambina facilmente manipolabile. Ho studiato giurisprudenza non a caso. Per capire. E ho capito.”
Rita aveva il volto rigato dalle lacrime e dietro le sue lenti una nebbiolina di vapore acqueo andava montando. Era stata ad ascoltare la figlia assorta e in attimo quasi 20 anni le erano trascorsi davanti gli occhi. Aveva rivissuto tutto. Quell’urlo sempre strozzato in gola, quel dolore atroce che aveva tenuto conficcato nelle viscere, lentamente evaporava tra ciglia, condotti lacrimali e occhiali. Sentiva il suo stesso corpo fluire leggero tra le parole della figlia. L’amore, stava vivendo tutto l’amore del mondo in un solo pomeriggio, quello che le era mancato per una vita intera.
Carla l’abbracciò e scoppiò a piangere singhiozzando. Pianse come una bimba di dieci anni. Pianse tutti i compleanni trascorsi senza la madre, tutte le domeniche pomeriggio senza il gelato al mare insieme o al cinema tra popcorn e risate. Le partenze per le gite del Liceo senza la mamma ad aiutarla a preparare la valigia, le sere prima dei compiti in classe senza il suo in bocca al lupo, senza i loro discorsi sulle emozioni. Le sere prima di ogni cosa della sua adolescenza, senza alcuna traccia di un bacio o di una carezza della sua mamma.
Pianse tutti gli sguardi, gli abbracci, le rassicurazioni, le parole di conforto, le complicità e i giochi tra una madre e una figlia. Pianse e si perdonò per non avere mai voluto sapere prima quale fosse la verità sulla sua storia paradossale e dolorosa. Pianse e si perdonò per aver creduto a quello che le avevano messo in testa sul conto della madre. Pianse le menzogne che aveva inghiottito e le verità manipolate ad arte contro Rita che non aveva mai cercato di difendersi in tutti quegli anni.
Poi, in un attimo di lucidità si ricompose e assumendo la posa di un avvocato in aula, pronta alla arringa disse: “Capisco perché non ti sei mai difesa, perché non sei mai andata da mio padre, dalla zia o dalla nonna a farti giustizia, a urlare, a replicare, a fare strage di parole, tu che ne hai sempre avuto milioni a disposizione, tu che sai usarle così bene. Credevo fosse stata resa da parte tua, disinteresse, apatia, accettazione passiva ma ora capisco che non è stato così. Ho gestito tanti casi abominevoli in tribunale.
Gli unici imputati che ho visto urlare e strepitare come matti sono stati quelli colpevoli. Gli innocenti non hanno mai urlato. Non sanno neanche farlo. In realtà, mamma, la menzogna con artificio e prove studiate a tavolino, si può travestire da verità. Ma la verità non ha bisogno di maschere. È nuda, essenziale. Non ha bisogno di strategie difensive. Non ti sei mai difesa perché non hai mai mentito in questa surreale vicenda che ci riguarda. E se non hai voluto perdonare nonna non è perché sei una figlia cattiva o snaturata ma perché hai voluto proteggermi dal male subdolo di cui lei è capace.
In fondo, mi hai messo al riparo, per come hai potuto. Mi hai tenuto lontano dalla sua follia ossessiva. Cella liscia a vita. Hai pensato fosse l’unico modo per salvarci.
Ma ora è diverso mamma. Ora neanche sa chi sia, come si chiami, dove si trovi. Ora neanche parla più emettendo parole ma suoni. Ora non può più farti del male, né farcene. Ti chiedo di lasciarla andare da viva prima che tu possa averla appresso per sempre, nella tua mente, da morta. I cerchi vanno chiusi. I conti sospesi tornano sempre a tormentarci. Effetto Zeigarnik, così si chiama in psicologia. Te lo chiedo per te, credimi.
Rita e Carla, una madre e una figlia vittime di una follia brutale, senza alcuna logica spiegazione se poi la follia ne possa avere una. C’erano voluti più di venti anni per dirsi tutto in un pomeriggio di fine aprile in un grande salone pieno dei libri di Rita e della valigia appena disfatta di Carla. Ma non sarebbero bastati secoli per risarcire tutto l’amore troncato, strappato, divelto, trucidato per invidia forse, patologica ossessione, gelosia malata, cattiveria pura. Pur volendo, non si sarebbe potuto sapere più quale fosse stato il reale motivo. Anche a domandarglielo, la signora M. avrebbe solo sbiascicato qualche suono incomprensibile.
Rita tolse gli occhiali poggiandoli sulla tastiera del pc. Le ciocche rosse scomposte le caddero sulle spalle. Carla la stringeva stretta mentre a poco a poco ricomponeva il suo respiro rannicchiata dentro le braccia della madre.
“Come quando eri piccola - disse Rita - e le baciò i lunghi capelli neri”.
“Come quando ero piccola - replicò Carla - e le baciò le ciocche rosse scomposte”.
In quel preciso istante squillò il cellulare di Carla. La canzone dei R.E.M come suoneria: Losing my religion.
Qualcuno dall’altro capo dello smartphone disse con voce rauca: “La signora M. dalle 4.38 di mattina emette rantoli e gira vorticosamente gli occhi indietro.”
Una lunga corsa in auto, madre e figlia, verso la RSA fuori città. Rita voleva chiudere il cerchio prima che la madre andasse via da questo mondo. Adesso lo voleva per sé e per la figlia.
Livia era già arrivata con la sua Mercedes blu classe A.
Rita e Carla non ebbero neanche la voglia di guardarla in faccia. Lei, ipocritamente felice di vedere la nipote e non la sorella, bisbigliò qualcosa al marito onnipresente. Carla si soffermò pochi metri indietro, la giusta distanza per permettere a sua madre di entrare per prima nella stanza in cui stesa su un letto con lenzuola sdrucite, la signora M. rantolava dall’alba. Era ormai un corpo inerme e impotente. Rita guardò il viso scarno, emaciato, il corpo sfatto dalla malattia, il braccio con le flebo ancora attaccate, i tanti lividi e sentì sparso tra le pareti l’odore malsano della madre. Ebbe un sussulto di angoscia e indietreggiò. Poi rassicurata dalla presenza di Carla sulla soglia, si avvicinò lentamente al letto e al corpo della signora M.
“Avrei preferito essere orfana – sussurrò - per una vita intera, avrei preferito dire a tutti: “mia madre è morta”. Sarebbe stato un dolore più sopportabile. Alla fine sarei venuta anche a trovarti in cimitero e ti avrei portato i tuoi fiori preferiti, le fresie gialle. Invece sei rimasta viva ad aspettarmi fino ad oggi. Sono qui e non importa se tu non sai più chi io sia, in fondo tu non lo hai mai saputo. Non mi hai mai partorito se non per sbranarmi lentamente a piccoli bocconi.
Eccomi qui e come vedi, se ancora riesci a vedere, sulla soglia della stanza c’è tua nipote. Devi a lei tutto questo. A lei che ha saputo partorirmi madre. Io forse non ci sono riuscita con te. Sono venuta per chiudere il cerchio come dice Carla. Non voglio torni ad ossessionarmi da morta così come hai fatto per una vita intera, da viva. Se può bastarti, è il mio perdono. L’unico che sono capace di darti. Buon viaggio mamma, ovunque andrai. Cerca di essere felice lì visto che su questa terra non sei riuscita ad esserlo né per te né per gli altri.”
Carla si avvicinò. Sopraggiunse Livia. Tre donne dissero addio alla signora M. con la consapevolezza di essere sopravvissute al non amore, ciascuna a modo proprio.
Dopo un anno esatto da quella sera, Carla seguendo le orme della madre scrittrice, affidò ad una nota casa editrice un manoscritto sulla storia così terribilmente dolorosa della sua vita. Manco a dirlo il romanzo divenne un best seller. Lo dedicò alla nonna, la signora M.
Il titolo fu: “Madre Mai Nata”.
Bia Cusumano