Agli amori purissimi
e alle storie che li custodiscono
oltre ogni fine possibile.
Si guardarono. Un sorriso stanco, di chi è sopravvissuto ad ogni orrore nella vita. Solchi profondi sul viso e dentro le fibre.
“Sai - disse Luigi - non so come sia riuscito mia dolcissima amica d’ anima ad attraversare questi mesi di follia pura, se non ci fossi stata tu ogni santo giorno. Le tue parole, il tuo ascolto devoto e incondizionato, il tuo silenzio complice, il tuo amore fedele per me e il tuo slancio generoso sono stati ossigeno. Anche tra le mie lacrime, c’è stato il tuo sorriso sicuro e incrollabile come il destino che sai costruire con le tue mani. Ma dove lo metti, tutto il tuo dolore, mi chiedo a volte, se accogli sempre quello mio e degli altri? Che strana creatura sei tu, Giulia. Strana e meravigliosa. La carezza di quel Dio di cui parli sempre. Insomma tutto questo lungo giro di parole per dirti “grazie”. Ti sono riconoscente e devoto come alle cose più sacre, come alla cenere che resta dopo il grande fuoco. Ti sono grato perché mi hai ricondotto lentamente alla vita dalla morte. Perché io d’amore sono morto.”
Giulia, una giovane donna con il senso profondissimo della cura verso gli altri. Senza ma, senza forse, senza non posso.
Luigi era un maestro di violino, un intellettuale di cultura profondissima. Un uomo d’altri tempi. Elegante, gentile, sensibile, smisurato nel protendersi in avanti e nella capacità d’ amare senza limiti o margini di protezione. Un maestro che aveva divorato centinaia di libri e scritto chissà quante poesie mai pubblicate. Pudico e sommesso, di una umiltà a volte imbarazzante. Sincero fino all’ingenuità infantile, delicato come una piuma che volteggia tra note di musica e versi di poesia.
Luigi e la sua storia dolorosissima. Orfano d’amore fin dalla giovinezza. I genitori erano morti in un incidente aereo. Uno schianto folle. Da allora era rimasto sospeso in un volo a mezz’aria pure lui. Sopravviveva a tutto ma si schiantava sempre, ripetutamente. Forse per rivivere sulla propria carne lo schianto dei suoi. Inconsciamente riproponeva a sé stesso la morte per risorgere sempre a vita nuova. Ma questa volta, senza Giulia non ce l’avrebbe mai fatta. Aveva chiuso un matrimonio durato anni.
Un amore intenso e viscerale. Luigi aveva dato tutto, rimanendo nudo, fragile, inerme, senza più difese, al limite estremo del massacro di sé. Lei, molto più giovane di lui. Spavalda, sicura, bella, senza misura nel pretendere e con tantissime riserve nel dare. Luigi l’aveva amata come si può amare una figlia, una compagna, una moglie, una amante, una collega, una amica. Ma non vi erano ruoli che potessero rendere pur lontanamente il senso di un amore così profondo. Anche lei era una docente di violino.
S’erano conosciuti ad un concerto per caso, se mai il caso esista davvero. Gli occhi di Luigi si erano incollati sugli occhi verdi di Marzia e da allora aveva fatto di tutto per averla sua, completamente sua. L’aveva corteggiata in ogni modo, vincendo ogni reticenza e resistenza da parte della collega così tanto giovane. Trenta anni di differenza. Un abisso. L’aveva sposata e portata nella sua villa di famiglia. Lì l’aveva cresciuta come una figlia, teneramente. L’aveva amata con devozione e fedeltà assoluta, l’aveva portata con sé nelle tournée in giro per il mondo.
Avevano viaggiato tanto, fatto suonare all’unisono i loro violini. I migliori ristoranti, i migliori hotel, i migliori vestiti, i migliori palcoscenici. Un amore che aveva coniugato l’arte e la passione, la musica e il successo, gli applausi e le lenzuola. Cosa chiedere di più, cosa desiderare di più? Luigi s’era illuso che questa volta c’ era riuscito a non inscenare più lo schianto della morte. Era solo vita bella e prepotente, quella con Marzia. Felicità e pienezza. Paradiso su questa amara terra.
E invece lo schianto era appostato come un cecchino dietro l’angolo. Lo aveva aspettato inesorabilmente. Il cecchino questa volta non aveva sbagliato di un millimetro. Un solo colpo dritto al cuore era bastato per ucciderlo.
La sera dello schianto, Luigi si trovava in villa, seduto davanti il camino con un libro di Pedro Salinas tra le mani e un bicchiere di rosso adagiato sul tavolo in legno ciliegio. Marzia tardava ad arrivare. Aveva detto che sarebbe stata impegnata nelle prove orchestrali della nuova compagnia di cui era entrata a far parte. Merito di Luigi. Grazie alle sue notevoli conoscenze e amicizie riceveva ottime proposte lavorative alle quali rinunciava puntualmente per favorire la moglie e farle avere incarichi prestigiosi.
Avrebbero messo in scena da lì a qualche mese La Cenerentola di Gioacchino Rossini. Si mise a piovere quella strana notte. Luigi iniziava a spazientirsi. Un oscuro presentimento serpeggiava lungo la sua schiena. Posò il libro di Salinas, guardò il cellulare. Nessun messaggio da parte della moglie. Fu tentato di chiamarla ma gli sembrò poco rispettoso. Non era da lui. Bevve il vino. Un cabernet Sauvignon dal colore rosso porpora. Rintuzzò il camino come se quella notte non dovesse finire mai e cadde in una tristezza profonda.
Gli sembrò di rivedere tra le stanze della villa di famiglia, sua madre, giovane e bella con i grandi occhi malinconici che incastonavano il suo ovale perfetto. Gli sembrò di sentirne la voce. Quando ancora lui era un bimbo, la madre con intima tenerezza, guardandolo dritto negli occhi, gli diceva: “Luigi mio, qualsiasi cosa accada, promettimi che suonerai sempre il violino, perché la musica è come l’amore. Sopravvive a tutto sempre. Ogni volta che suonerai creerai amore. Non esiste dolore o morte in grado di annientare la bellezza.
La bellezza è amare ciò che crei con lo stesso ardore con cui t’amo io che ti ho messo al mondo.” Luigi ancora piccolo, figlio unico, tra mille giochi e fantasie, annuiva alla madre che non avrebbe mai voluto contraddire o dispiacere. Così, pur non comprendendo a fondo le parole che la madre ritualmente gli ripeteva, prendeva il violino e si metteva a suonare. Sua madre lo guardava rapita d’incanto e orgoglio. Quella notte di dicembre prese il violino e iniziò a suonare riempiendo la villa di una musica straziante e dolcissima.
Marzia giunse alle tre e trentotto. Luigi s’era abbandonato, sfinito di attesa e vino sul divano. Il fuoco s’era spento e il violino adagiato sul tappeto sembrava essere rimasto l’unico sveglio ad attendere la verità. Marzia era brilla, l’abito che indossava sgualcito, il trucco sbavato. Aveva uno strano sorriso stampato in volto. Luigi si svegliò di soprassalto e comprese prima ancora che la moglie parlasse. Perché prima comunicano i corpi e poi giungono le parole. Marzia si era innamorata di un giovane collega musicista e voleva il divorzio immediato.
Aveva diritto a vivere a pieno i suoi anni. Azzardava la pretesa di realizzare tutti i suoi sogni, d’ avere la libertà di una giovane donna che non voleva trascorrere i suoi giorni con un vecchio stanco e vinto dalla vita. Così disse.
Il cecchino aveva sparato dritto al cuore. Senza preavviso. Era rimasto lì in quei tanti anni di matrimonio, non visto e non sentito. Ospite perenne e inseparabile di Luigi. Aveva solo aspettato il momento giusto. E il colpo era esploso senza pietà alcuna.
Marzia pretendeva la villa, i soldi del conto, la sua parte di benessere economico. Meritatissimo, aggiunse, perché in fondo aveva donato a Luigi i suoi giovani anni, il suo corpo statuario, la sua bellezza vertiginosa, il suo talento ormai consolidato, la sua presenza. Era giunto il momento di saldare il debito. Di pagare il conto. Perché i conti si pagano sempre. Questione di tempo. Luigi non riusciva nemmeno a guardarla. Bella e spietata. Spavalda e spocchiosa. Arrogante e pretenziosa. Voleva tutto e voleva soprattutto che il sipario calasse al più presto possibile su quel matrimonio che definì una farsa. Lei, giovane e bella, all’apice della sua carriera non voleva più avere accanto un vecchio stanco, ormai in declino, divorato da ricordi e privo di desideri. Non era più vita per lei.
Ora, mia dolcissima Giulia, se non ci fossi stata tu, dopo che il cecchino ha sparato il colpo e lo schianto si è perpetrato nella mia vita, io quella stessa notte l’avrei fatta finita.
Ho preso due cambi intimi, due maglioni, il violino e sono fuggito all’alba di una notte di dicembre. Il gelo mi ha consumato le ossa. E l’ennesimo fallimento della mia vita mi ha gettato in preda alla depressione più nera. In una sola notte sono tornato ad essere orfano. Un altro amore schiantato. Un altro lutto. Un'altra fine inesorabile. Ho lasciato la villa con tutto dentro. I mobili dei miei genitori, i quadri, il pianoforte a coda, i libri, i soldi. Tutto. Perché non esiste nulla al mondo che possa risarcire un amore tradito, svilito, massacrato, ucciso senza compassione alcuna.
Mi sono ridotto un profugo vagabondo. Indigesto alla mia stessa vita. Il peggiore nemico di me stesso. Ho toccato il fondo della disperazione e della perdizione. Volevo davvero annientare la tristissima storia del maestro di violino piantato in asso dalla giovane moglie in carriera senza pietà. Al fondo del massacro sei riapparsa tu, mia Giulia. Mi sono aggrappato a te come ho sempre fatto perché in fondo io sono un uomo debole, un disadattato alla vita. Mi sono aggrappato a te come fossi mia madre, la sorella che non ho mai avuto e la carezza di quel Dio di cui tu parli sempre.
Ci siamo ritrovati dopo anni di lungo silenzio perché Marzia non aveva mai permesso potessi avere amiche, neanche te. Pretendeva l’assoluta esclusiva mentre lei chissà quanti amanti abbia avuto. Eppure tu sei rimasta. In disparte a guardare. In silenzio ad amare. In attenta e vigile osservazione. E quando quella sera dopo anni ti chiamai, con un senso di colpa mostruoso per essere sparito così miseramente dalla tua vita, hai risposto senza esitazioni e mi hai semplicemente detto: “Luigi, dove sei? Arrivo.”
Non so come abbia fatto, mia Giulia, a pensare fosse possibile vivere senza la tua profondissima amicizia, senza il tuo vincolo di anima, senza la tua voce, i tuoi consigli, il tuo prezioso esserci, senza mai alcuna pretesa o giudizio. Ma tu sei così. L’amicizia cosa vuoi che sia, se non amore purissimo? Mi tornano sempre in mente le tue parole. E quella sera ho avuto il coraggio di chiamarti perché ero certo che le tue non siano mai state solo parole. Ed eccomi giunto a rivolgerti il mio augurio di compleanno con i versi di uno scrittore che insieme abbiamo amato molto perché sopravvissuto a tutto, fuorché poi a sé stesso. Sopravvissuto come noi, mia dolcissima Giulia. Non ho soldi per farti il regalo che meriteresti. Non posso che donarti parole ma so che per te sono tutto. Il tuo tutto, il tuo tutto-mondo. Non scordarle mai, ti prego.
“Abbi pazienza, mia donna affaticata,
abbi pazienza per le cose del mondo,
per i tuoi compagni di viaggio, me compreso.
Dal momento che ti sono toccato in sorte.
Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici
per questo tuo compleanno rotondo.
Abbi pazienza, mia donna impaziente,
tu macinata, macerata, scorticata,
che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno
perché la tua carne nuda ti faccia più male.
Non è più tempo di vivere soli.
Accetta, per favore questi 14 versi.
Sono il mio modo ispido di dirti cara.
E che non starei al mondo senza te.”
Primo Levi
Di Luigi non si seppe più nulla. Dopo aver rivolto l’ultimo saluto ai suoi genitori sepolti nella cappella di famiglia e aver donato le parole di Primo Levi all’ amica di una vita, la sua Giulia, scomparve in una notte di dicembre con il suo violino. La villa, i soldi, la carriera brillante restarono a Marzia che da lì a poco si sposò con il giovane collega. Giulia, l’ho incontrata ormai anziana al teatro della sua città. Va sempre ad assistere alle opere in cui si esibisce l’orchestra in cui Luigi suonava come primo violino. Fu lei una sera ad avvicinarsi a me e a dirmi: “So che lei è una scrittrice. Ho una storia da raccontarle. Se poi vorrà, la scriverà in uno dei suoi tanti libri. Se no, la mia storia avrà avuto comunque la fortuna di essere ascoltata da una scrittrice come lei.”
Giulia la ricorderò sempre così. Capelli brizzolati raccolti dietro la nuca, elegante nei suoi abiti dai colori vivaci, bracciali ai polsi e anelli nelle sue dita candidissime. Occhi profondi e lucidi. Donna forte e dolcissima. Luigi non l’ho mai conosciuto. Marzia, seppi dal racconto di Giulia, che dopo poco tempo divorziò anche dal giovane marito e ripetendo ad oltranza il copione, derubò anche il nuovo consorte di ogni cosa potesse. Di anni ne sono trascorsi. Ho appreso da pochi mesi che Giulia si è spenta all’età di ottantadue anni.
So che teneva in mano il foglio con su scritti i quattordici versi di Primo Levi. Ho deciso di scrivere la sua storia perché l’amicizia è l’amore più puro che io conosca e perché esistono persone senza le quali vivere al mondo è quasi impossibile. Un dolore insopportabile. Forse saranno davvero la carezza di Dio su questa terra. Non lo so. Ma so che chi riceve in dono una storia non può tenerla per sé. Ha il dovere morale di donarla agli altri. Le storie sono fatte per essere raccontate.
Le parole sopravvivono a tutto come l’amore. So con certezza che Luigi e Giulia e il loro purissimo amore continueranno a vivere oltre ogni fine possibile. Come i quattordici versi di Primo Levi, l’uomo e lo scrittore sopravvissuto a tutto tranne che a sé stesso.
Bia Cusumano