Appunti e storie castelvetranesi: La qualità dell’assistenza pubblica tra il ‘500 ed il ‘600

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
12 Agosto 2018 09:20
Appunti e storie castelvetranesi: La qualità dell’assistenza pubblica tra il ‘500 ed il ‘600

Le recenti vicende che interessano l’ospedale di Castelvetrano ci inducono a pubblicare uno stralcio del I vol. della nostra “Città Palmosa” che concerne il tema delle strutture assistenziali nel periodo a cavallo tra XVI e XVII secolo, a testimonianza di quanto il tema sia stato sempre sentito in una città come la nostra, posta al centro di un vasto comprensorio che oggi chiamiamo Valle del Belìce. A Castelvetrano, la più antica struttura assistenziale, di cui si ha memoria documentata, è quella dell’ospedale, inteso non solo come ricovero per gli ammalati ma soprattutto come hospitalis, cioè luogo di tappa dove potessero trovare asilo viandanti e pellegrini; fatto questo non trascurabile, considerata la strategica posizione di Castelvetrano, posta all’incrocio di importanti percorsi che interessavano la Sicilia sud-occidentale[1].

La volontà di edificare detto ospedale, a coronamento del sempre più rilevante ruolo che la città andava assumendo, sancito nel 1522 dalla sua elevazione a contea, si evince da alcuni legati testamentari a favore della erigenda struttura. In quello stesso anno, ad esempio, un tal Francesco Renda disponeva che, in assenza di eredi legittimi, le sue sostanze andassero alla divisata fondazione dell’ospedale nel luogo dove il conte di Castelvetrano avesse deciso, come leggiamo agli atti di Baldassare Dionisio a’ 9 settembre 1522.

E ancora, nel 1524, un tal Pirrone Tamburello lasciava nel suo testamento, agli atti del medesimo notaio a’ 6 ottobre, la somma di 6 onze alla fabbrica dell’ospedale. Questa, nondimeno, si deve principalmente alla volontà di don Baldassare Tagliavia, di un ramo cadetto dei baroni di Castelvetrano, che nel suo già citato testamento del 1525 dispone i mezzi per la costruzione e il completamento dell’ospedale prope dictam confraternitam sancti Ghandolphi. L’edificio sorse dunque vicino la chiesa di S.

Gandolfo, fuori le mura della città, e lungo un’arteria particolarmente trafficata che, passando per Castelvetrano, univa Mazara a Misilindino (oggi S. Margherita Belice), un asse viario di probabile origine selinuntina e di grande interesse strategico e commerciale. E tuttavia, nel 1539 riscontriamo, dal testamento di Giovan Vincenzo Tagliavia, primo conte di Castelvetrano, che l’ospedale, col titolo di S. Antonio Abate (e non più di S. Gandolfo), era stato trasferito nelle adiacenze della omonima chiesa e che esso, sottratto alla confraternita di S.

Gandolfo, veniva gestito direttamente dal barone. Nell’arco di poco più di dieci anni – pei quali nondimeno le fonti tacciono – due sono quindi i fatti nuovi che si verificano: il trasferimento della struttura in un luogo strategicamente più idoneo, cioè alla confluenza della predetta via di Misilindino con quella che dalla marina di Polluce portava a Palermo e a Castellammare; e l’intervento diretto dei feudatari nell’amministrazione del detto ospedale. Nel corso del ‘600, anche a seguito delle migliorate condizioni economiche della città, l’ospedale conobbe un notevole impulso, sottolineato da tutta una serie di lavori strutturali e decorativi che ne mutarono affatto l’aspetto.

In particolare, esso si dotò di ambienti separati per uomini e donne, di locali destinati esclusivamente ai pellegrini, e di una chiesa propria, affiancata a quella di S. Antonio, che assunse il titolo di S. Maria della Pietà, detta anche, in alcuni documenti, di S. Maria del Pensiero. Un piano solerato accoglieva gli uffici e il monte di pietà. Alle spalle dell’ospedale fu realizzato, come già detto, un cimitero per i poveri con una cappelletta dedicata a S. Rocco, che dava il nome alla strada che lo costeggiava, oggi denominata via San Martino.

Nell’anno 1695, come per atto ai rogiti di notar Antonino Maurici al 18 dicembre, il parroco di S. Giovanni, Eustachio Di Maria, concesse agli amministratori dell’ospedale di tenere il SS. Sacramento nella chiesa di S. Antonio Abate, per somministrare agli infermi l’Eucaristia, riservandosi il detto parroco alcuni privilegi, tra cui quello di eleggere il cappellano amovibile dell’ospedale, su proposta dei prefati amministratori. Nel 1549, come già detto, per volontà di don Carlo d’Aragona e Tagliavia, conte di Castelvetrano, fu istituito il Monte di Pietà… pro subvencione pauperum et miserabilium, presso la predetta chiesa di S.

Antonio e annesso ospedale. Per la dotazione del Monte, si provvide ad una pubblica colletta che fruttò la somma di 14 onze, di cui 6 offerte dalla munificenza di don Carlo e consorte. Il monte di pietà, la cui fondazione si colloca in quel particolare clima che vide la nascita e la diffusione nell’Isola di questi istituti filantropici, esercitava un’importante funzione assistenziale, erogando elemosine e sussidi dotali, distribuendo farmaci agli ammalati bisognosi, praticando opere di culto e di elevazione spirituale, costituendo per oltre due secoli valido strumento di soccorso e di tutela per i poveri[2].

Ospedale e monte di Pietà, a partire dal 1568, furono amministratri dalla più volte citata compagnia dei Bianchi. Posteriore è l’erezione, per iniziativa del sacerdote Antonino Militello, del Monte dei Prestiti, che risale al 1 giugno 1663, data in cui il principe della città ne approvò i capitoli, registrati in corte giuratoria a 29 agosto dell’anno successivo. Poche e nebulose sono però le notizie che di questa istituzione ci sono pervenute. Per quanto riguarda l’assistenza medica, sappiamo, attraverso un atto di notar Antonino Abitabile del 7 ottobre 1546, della esistenza di una condotta medica per gli indigenti, affidata a un tal dottor Antonino Marciante da Sciacca, che si obbligava a prestare la sua opera a favore dei 150 poveri, iscritti in una apposita lista di indigenti, per il salario di onze 25 annuali.

Si ha notizia ancora della costituzione, nel 1591, di una Domus pauperum, forse un ospizio di mendicità, di cui si è poi persa ogni traccia, verosimilmente fondato per dar soccorso ai miseri della città, particolarmente vessati in quell’anno di carestia. Risulta agli atti del notaio Vincenzo Graffeo la raccolta, ad opera di cittadini di riguardo, di onze 21.14 che furono consegnate a tali don Vincenzo Messana e don Antonino Di Maria tamquam depuatatis domus pauperum[3]. Nel corso del Seicento, furono creati alcuni istituti a tutela delle donne.

Ritroviamo la cosiddetta Badiella delle repentite, reclusorio per le meretrici intenzionate a mutar vita, di cui nell’aprile 1657 l’Università sovvenziona alcune opere di rifacimento[4]; e ancora il Reclusorio delle mal maritate, destinato a quelle donne “pericolanti” a seguito del fallimento del loro matrimonio[5]. Poche sono le notizie che abbiamo di queste due istituzioni, che già ai tempi del Noto appaiono non più attive, mentre maggiore è la documentazione sul Conservatorio di S.

Giacomo, di cui esistono tuttavia le tavole di fondazione[6]. L’istituto, destinato alla educazione e rifugio delle orfane pro evitandis pericula (sic) mundi et animarum salute ipsarum orphanarum et pro substentatione ipsarum, era stato fondato, il 16 dicembre 1618, per iniziativa di alcuni maggiorenti della città. Tra essi ricordiamo i Giglio, i Monteleone, i Maio, i Militello, i Fasulo, i quali, mossi dalla predicazione del cappuccino fra’ Angelico da Corleone, si impegnarono, ognuno in funzione della propria disponibilità e volontà, a versare una certa quota.

La data del 1623, riportata dal Pirri nella sua Sicilia Sacra[7], indica probabilmente il momento in cui furono completate le opere nel sito che il principe aveva messo a disposizione, assumendone l’onere del mantenimento. Il conservatorio sorgeva nel luogo dell’antico monastero delle Benedettine, scioltosi, come già ricordato, nel 1540. Le poche monache superstiti, trasferendosi per unirsi a quelle dell’Annunziata, recarono ad esse in dote i locali abbandonati che, nel 1546, furono concessi in enfiteusi, come si evince dagli atti di notar Antonino Abitabile del 2 novembre 1546 e 9 settembre 1550.

Successivamente, il tenimento fu acquistato dai baroni di Castelvetrano per essere destinato appunto a ricovero di orfane. Ad esso venne assegnata una dotazione annua di carne, frumento, formaggio e olio, per un importo complessivo di onze 8.25 a carico della ducale secrezia. Ulteriori 30 onze per le necessità del conservatorio furono stornate dai proventi della gabella della neve[8]. E finalmente, ai tempi di don Diego, si ha notizia di una congregazione di nobili, governata da un Protettore, nominato dal principe, con sua sede nella chiesa di N.

S. degli Agonizzanti, la cui finalità era quella di provvedere alle esequie e alla tumulazione dei poverelli che non possono spendere perché non lasciano beni per potersi sepellire, ma lo portano su le spalle col feretro il Protettore con alcuni altri nobili e pij sacerdoti, che si radunano per esercitare l’esemplarissimo e pijssimo officio quale sta in fervore e osservanza anche in questi tempi[9]. Francesco Saverio Calcara Aurelio Giardina [1] Sull’ospedale di Castelvetrano attingiamo da M.

Venezia, L’ospedale di Castelvetrano. 500 anni tra storia e storie, in F. S. Calcara, F. Costa, A. Giardina, L. Leggio, M. Venezia, Il vecchio ospedale di Castelvetrano, L’Epos, Palermo 2005, pp. 55-78. [2] Cfr. S. Di Matteo, F. Pillitteri, Storia dei Monti di Pietà in Sicilia, Cassa di Risparmio V. E. per le province siciliane, Palermo 1973, p. 347. [3] Cfr. AND, notar Vincenzo Graffeo, Atti, 1590-91,  f.

116 ss. [4] Cfr. ASC, Mandati, 1656-57, f. 31. [5] Cfr. G. B. Noto, Platea…, cit., f. 269. [6] AND, notar Francesco Graffeo, Atti, 1618-19, ad diem 16 dicembre. [7] Cfr. R. Pirri, Sicilia Sacra, cit., p. 594. [8] Cfr. G. B. Noto, Platea…, cit., f. 226. [9] Ivi, f.

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