Terra e mani, il racconto di un padre andato via troppo presto

Giacomo Bonagiuso apre il suo cuore e racconta tutto l'amore per suo padre e i preziosi insegnamenti di vita

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
14 Febbraio 2022 19:00
Terra e mani, il racconto di un padre andato via troppo presto

Sempre presto, molto presto, come in un rito quotidiano, e sempre seduto a "mezzo letto", mutande di lana, e calzino lungo, la canottiera, e poi il pantalone di velluto, la camicia, la giacca immancabile.

Scivolare via come fosse olio, a suo agio in un ingranaggio collaudato. Prima della luce, nella scala tutto marmo trapanese, fino all'androne, tra le volte da cattedrale, e la Fiat 127 verde oliva. La marcia indietro che gratta, lo spazio esatto. Centimetri a destra, millimetri a sinistra. La frenata. Rosso agli stop. La marcia in folle come liberata da un carico. E poi il rituale del portone in legno, maestoso, da chiudere. Quindi Belice, o Sant'Alessio, le vigne, tra alberelli snervanti, e ulivi maestosi.

Il fiume e i suoi argini di creta. Il pozzo, la senia, la gebbia, il consorzio Basso Belice Carboj, la conta delle cartedde, ogni venti un cartidduni, e poi i teli, il mosto dolce. Giacomù, facciamo il giro delle finaite. Devi imparare bene. Qui muovono le mire e sconfinano. Per un albero in più si farebbero dare fuoco. La terra è sacra, come le mani che servono a benedire, più della lingua. E poi c'è lu picuraro che fa mangiare i pinnuluna delle olive alle pecore. I pilarini che crescono sempre perché qui la terra è buona, quelli non li mangia nessuno.

Ci vorrà la fresa o l'aratro? Il filo d'erba in bocca, sempre, come uno stile di concretezza. Giacomù, non te la scordare mai la terra. Lasciaci mano all'incimintato. I piedi devono sentirla bene sta terra umida e viva. Non ti fare corrompere dalle villette a schiera, Guacomù. Sono brutte, 'grancio "nta 'grancio, e con troppe mattonelle a terra. La terra ti insegnerà la concretezza, l'onestà e il rispetto. Oltre al libro, la terra. Il resto sono cose suvecchio. E lu suvecchio che rumpi lu cuvecchio.

Smunta tutta sta retorica di tammurino, Giacomù, la terra. Chisti chi paiono alberi di Natale a comu si cumminanu, ma sotto sotto niente, non sono cristiani. Magari hanno i piccioli, potere, ma dentro niente hanno, niente sono. Lo vedi lo zucco? Vuole salire, e diventare pianta. Così tutti. Ma c'è chi ha la forza delle barbatelle, e lotta da solo per salire, e chi campa aggrappandosi agli altri, come i rampicanti. Poi il giro finisce sotto la pennata, mentre Don Nenè svita la camella con la pasta e piselli, Don Andrea ha il cozzo di pane nero, e il signor Giovanni si muove in mezzo alla campagna come un rabdomante.

Simone tutti ascolta, da tutti impara, tutto registra fino al punto della grafomania, giunti a casa a sera, dopo aver raccolto lo sparacello, o cacchi pumo, o due arance. Carpette su carpette che da noi non sono pesci ma cartellette di cartone dove sul frontespizio puoi scriverci pure romanzi. E Simone romanzi scrive. Fino al maggio 94. Chissà, forse pensa di andarsene così presto e così di lasciare le piste spianate a chi arriva. Così come col giro delle finaite, i confini, e la presentazione a tutti i viddani.

Da quando avevo sei anni tutte me le sono fatte, acchianate, le spalle, di Don Nenè che stava a San Giuseppe ed era il miglior potatore e il miglior innestatore; di Don Andrea che aveva i baffi che sembrava Nino Bixio, e mi faceva pure fare il giro sul trattore. Ah, già, questo era Simone, mio padre, per me, l'avvocato per tutti gli altri. E tirava certe scoppole che le orecchie andavano due metri avanti e tornavano. Ma che mi ha insegnato a ridere dei vacanti di dentro, e di cercare la sostanza delle cose.

Non la buccia. Perché il giro qua dura quel che dura, e non è vero che si finisce al camposanto, ma ovunque lo spirito può buttare un occhio al vento, verso la terra e le nostre mani.

Giacomo Bonagiuso

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