​Medea: la geniale forza del teatro di Giacomo Bonagiuso

Geniale è stato pensare di riscrivere in siciliano un’altra pietra miliare del teatro, cambiandone l’ambientazione

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
04 Settembre 2025 07:51
​Medea: la geniale forza del teatro di Giacomo Bonagiuso

A Gibellina, nel surreale teatro della Chiesa Madre di Quaroni, è andata in scena il 29 agosto la "Médèa. Arcana Opera in Canto" di Giacomo Bonagiuso. Sembrava di essere parte di un sogno (“di una notte di fine estate”): la luna nascente si è accostata alla sfera di Quaroni per guardare l’attento pubblico presente nella cavea ed abbracciare gli attori sul palco, quasi fosse arruolata negli effetti di scena.

Cosa dire di più o di nuovo sull’arte di Giacomo Bonagiuso? Geniale è stato pensare di riscrivere in siciliano un’altra pietra miliare del teatro, cambiandone l’ambientazione e l’epoca nella Sicilia e nel Piemonte del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, dove il tradimento dei valori di libertà e ridistribuzione delle terre dei latifondi e della piena unione del popolo italico appaiono evidenti e già contenute nel conflitto Medea-Giasone. Eccetto le voci fuori scena, realizzate in cinema, l’opera è del tutto cantata (caspita, che bravura nella trasposizione in siciliano, nel musicarla e nel cantarla in scena) con cinque attori/cantanti (Medea, Giasone e le tre corifee) eccezionali sul palco e due (i narratori) fuori scena."Medea” si presenta ai nostri occhi e alle nostre sensibilità, ancora oggi, così attuale e come una abitante di questa società, tutt’altro che equa e inclusiva.

Medea è, innanzitutto, donna e, quindi, subalterna: “Si la fimmina in natura/ avissi la ‘mpurtanza,/ avissi la raggiuni,/ fussi lu riflessu/ d’un veru Diu.../ Ma, li fimmini nun hannu/ rango e discendenza,/ putiri e rilevanza,/ dintra d’ogni casa/ e in società”.Medea è, per giunta, straniera ed è innamorata di chi non cerca altro che potere. “Cantu di Medea lu scantu/ di lassari casa, patri e matri; cuntu di Medea l’amuri/ chi li radici sicchi abbrucia”: per amore, Medea tradisce e abbandona la sua terra, i suoi affetti, non senza paura, pur rimanendo sempre una straniera agli occhi di Giasone e del nuovo popolo e sentendosi sola nella nuova società (“Stranìu di lu cielu/ lu culuri, /di soccu agghiuttu/ schifìu lu sapuri”).

Medea lotta contro il ruolo impostole dal marito (“Accogli l’offerta, non ha contraltare:/ restare nell’ombra, in silenzio soffrire!/ [...] se chinerai la fronte ormai,/ se passi indietro tu farai...”) e dalla società; cerca, a suo modo, giustizia (“chista unn’è mattanza, sulu giustizia potenti!”), non fermandosi dinanzi a nessuno (“’Nnucenti criaturi,/ curpa di nenti,/ pagàti lu sgarru/ d’un omu fetenti!), pur di vendicare i torti subiti, in un crescendo di mostruosi atti che conducono al più atroce dei delitti (“Durmiti figghi, durmiti.../ chi morti è sonnu senza sonni...”).

Cosa rimane a Giasone, uomo, marito e padre? “Niente, tutto qui è niente”.Sommersi da continue notizie luttuose, spesso restiamo assuefatti dinanzi a quel che accade intorno a noi e dimentichiamo che il pianto degli altri è uguale al nostro. “La tragedia è tragedia universale, unnegghiè, perchè chi muore a un sacrificio etta vuci, e la voce diventa nello spazio tra lì e qui tutto ‘stu millenario inciso che diventa canto...”

Emanuele Monteleone

foto Giacomo Moceri e Francesco Russo

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