E’ entrato con passo malfermo e tremante, Giorgio Magnato dentro la suggestiva e superba chiesa di San Domenico, a Castelvetrano. E’ entrato con un piccolo bagaglio a mano. E’ arrivato in treno dalla sua città, in cui vive solo. Mi ha abbracciato teneramente come solo un padre può fare con una figlia, proprio lui che figli non ne ha voluto mettere al mondo. E’ venuto per interpretare un testo di Victor Hugo: un rospo o una favola umana.
Uomo di grande cultura, una vita donata con amore ai palcoscenici di tutta Italia e del mondo intero. Un uomo vissuto per l’arte, per la bellezza, per il teatro, per fare bene a chi non sa spesso neanche riconoscerlo. Uomo ormai anziano, dimesso, ma dallo sguardo fiero. Cuore profondo e generoso. Mi ha colpito subito il suo parlare schietto, il suo dire la verità senza paura alcuna, con il coraggio altèro che è solo degli animi forti che non temono ricatti o ritorsioni perché la coscienza ce l’hanno trasparente, senza ombre.
Mi ha raccontato la sua storia in una serata animata da musiche natalizie e dal coro dei bimbi. Una serata dedicata alla Fibromialgia, patologia cronica ed invalidante non ancora riconosciuta dalle Istituzioni italiane sorde al dolore, invisibili loro, molto più che la stessa patologia. “Non credo più a nulla, tesoro, gli uomini sono le vere bestie. Massacrano, uccidono, incapaci di amare, tronfi del loro orgoglio smisurato, si credono Dei sulla terra e sono solo meschini. Sono venuto per te, mia dolce amica, voglio che i bimbi e tutti a San Domenico ascoltino chi sono le vere bestie.
Ho ricevuto molto male nella mia vita senza mai vendicarmi o fare torto a nessuno. Sono un uomo solo, che vive grazie al fondo Bacchelli, non possiedo nulla se non la mia dignità.”
Solo. Riecheggia quella parola nella mia mente. Dopo aver presentato la serata, dopo aver presentato i bimbi meravigliosi del coro DoReMi’, dopo avere ascoltato, in religioso silenzio, la sua magistrale interpretazione del testo di Hugo nella traduzione di Pascoli, dopo aver annunciato le voci storiche del nostro Palmosafest: Aurora Di Nino e Peppe Clemente, con la presenza straordinaria di Enza Ienna, soprano di Gibellina. Serata tutta dedicata all’Associazione Nazionale Libellula Libera, per sensibilizzare e fare corretta informazione su questa ladra di vita, come l’ho sempre definita io.
Solo. Quella parola mi resta scolpita dentro. Mi chiedo come sia possibile che un maestro come Giorgio Magnato dopo una vita intera dedicata al teatro e alla recitazione, dopo aver calcato i palcoscenici del mondo intero, viva in completa solitudine, senza l’affetto di nessuno, in un piccolo appartamento in affitto a Marsala? Solo. Senza figli per scelta, senza una compagna, senza più familiari perché tutti sono già altrove, senza nessuno che lo aiuti in casa, senza l’abbraccio e le carezze di chi un tempo lo ha applaudito.
Sic transeat gloria mundi. Sì, passano i tempi degli onori, degli applausi, dei successi. E quindi? mi chiedo. Come si può abbandonare un uomo solo, anziano, ammalato? Che poi sia un grande artista è suo merito, ma non aggiunge o toglie nulla al comportamento disumano di altri uomini che non sanno più esserci nella vita di Giorgio. “Non possiedo nulla, neanche una casa, morirei di fame se non fosse per la legge Bacchelli - mi dice - Giorgio”. La legge Bacchelli, ovvero un vitalizio istituito dal Presidente Cossiga che sostiene con un assegno mensile i cittadini illustri ma indigenti che hanno portato onore e fama alla nostra patria, distinguendosi per la cultura, l’arte, la poesia, il teatro.
Giorgio mi racconta la sua vita. Lo fa con telefonate precedenti la nostra serata, lo fa dopo. Si crea un filo sottile di solidarietà profonda tra anime dedite all’arte. Ma mentre lui ormai tace davanti alle ingiustizie di questa umanità disumana, io non posso tacere. “Posso raccontare la tua storia? - la domanda che gli rivolgo - sì, - dice - dillo che sono un uomo solo. Non trascorro più un Natale o un Capodanno in compagnia da anni, vivo in questa casa in affitto a Marsala e se un giorno me ne dovessi andare, prima o poi capita a tutti, nessuno mi verrebbe a cercare, per questo ho deciso di lasciare le chiavi al mio vicino di casa, così farà quel che deve.
Gli animali mi hanno amato molto più degli uomini. Gli uomini mi hanno perseguitato, tradito, ferito, abbandonato, mentito, calunniato. Chi sono le vere bestie?” Solo. Nel silenzio assordante delle Istituzioni sorde davanti alle persone anziane sole e ammalate, sorde davanti a patologie croniche ed invalidanti, sorde davanti al dolore di uomini massacrati da altri uomini, in pieno clima natalizio, guardo i miei abiti rossi, il mio trucco curato, guardo il volto dei bimbi intonare canti con sfere luminose, guardo e osservo tutto, da donna innamorata della cultura e della scrittura, da docente e da madre.
Mi si raggela il sangue ma la serata deve proseguire. Io presento, non posso fermarmi. Dopo la sua interpretazione, Giorgio nella sua immensa dignità di uomo solo, va via.
Esce dalla Chiesa di San Domenico con il suo passo malfermo e il suo bagaglio a mano con le rotelle, si incammina verso la stazione ferroviaria dove lo attende un treno che lo riporterà a Marsala, dove solo cenerà nella sua umile casa. Va via, in punta di piedi, senza disturbare nessuno, con la sua immensa generosità di cuore e la sua titanica umanità. Grande lezione di vita per tutti noi, boriosi e tronfi borghesi o ancor più, noi che ci crediamo uomini e donne che facciamo cultura in un posto così disumano come questo mondo.
Ecco la lezione invece di chi meritatamente ha reso la nostra Italia, da nave senza nocchiero, a terra di poeti e menti illuminate. Mentre Giorgio Magnato nel silenzio distratto di un mondo ingrato si allontana dalla Chiesa di San Domenico, mi giunge finanche un suo messaggio. Da uomo per bene, quale è, si dispiace di non aver salutato il nostro cantante con cui ha condiviso palcoscenici, musical e testi teatrali. Giorgio va via perché sente di non appartenere a questa umanità che non sa ascoltare, che non sa accogliere il bello, che non sa tutelarlo, custodirlo, proteggerlo.
Una città che massacra i suoi poeti o artisti non li merita. Ha ragione, come potergli dare torto. Resta quella domanda di senso sul valore della sua vita tutta dedicata a fare cultura. Che senso ha in un mondo così, in una città come la nostra, continuare a costruire bellezza? Continuare a lottare per non arrendersi all’abulia, all’indifferenza, allo sfinimento etico? Tanto nulla cambia. Tanto non serve a nulla. Allora mi aggrappo alla lezione di Franco Arminio, ai suoi occhi sperduti proprio dentro San Domenico per contemplarne l’audace bellezza.
Mi aggrappo ai suoi versi, per salvarmi dallo sconforto, per dare un senso a quello che faccio anche io, con fatica immensa, in una città come la nostra. Difficile, complessa, spesso faziosa, conflittuale, prevaricatoria, invidiosa che vuole condurti a tutti i costi al muro della resa, che vuole defraudarti dei tuoi sogni e dei tuoi desideri, legittimi, veri, autentici, generosi. Penso alle parole di Franco, ai suoi scoraggiatori militanti, a quelli che ti vogliono persuadere a tutti i costi a rassegnarti, ad arrenderti, perché nulla più potrà cambiare nel sistema.
Il sistema è marcio fino alle midolla, è colluso in ogni sua parte. Non esiste più il senso etico della Bellezza, il suo valore salvifico, non esiste passione autentica e generosa per la cultura, se non autoreferenziale inno di vanagloria a se stessi e fame bulimica di riflettori, non esiste possibilità alcuna di non vendersi, di non prostituirsi al dio denaro o al dio del nulla. Mi aggrappo alle parole di Felice Cavallaro. La vera antimafia è fare cultura, raccontare ai giovani la verità.
Ecco, il coraggio della verità, pure se costa saltare in aria, come accadde al giudice Falcone, alla moglie Francesca, agli uomini della scorta e a tanti troppi uomini e donne che si sono spesi per la verità, la giustizia, per costruire bellezza insieme, nella trasparenza, nella correttezza, senza calunniare o invidiare nessuno. E così, ripercorro quei tre lunghi mesi di Festival d’Arte e di Letteratura, da direttore culturale, dormendo con i libri che ho presentato, ascoltando le storie e le vite dei poeti e degli scrittori, per ore.
Parlando con loro, studiando con fatica, poiché la fibromialgia ce l’ho pure io. Ma con amore generoso, non risparmiandomi mai, organizzando tutto nei dettagli, con cura. Rimettendoci ore di sonno, soldi, rapporti che credevo autentici, rivelatisi opportunistici e falsi. Stranamente sorrido. Li vedo tutti e tre in fila: Giorgio Magnato, Felice Cavallaro, Franco Arminio. Un grande attore, un grandissimo giornalista e un immenso poeta. E a questi maestri che hanno donato ognuno a modo proprio l’esistenza alla cultura, all’arte, al dono delle parole, ai versi, al coraggio della verità e alla resistenza, sorrido.
Giorgio mio, sei un uomo solo, se oggi non ci fosse nessuno a raccontare la tua storia. Forse sarà poco ma te lo dovevo per dirti che non è stato inutile venire nella mia città. Torna ancora e torna più spesso. C’è ancora chi sa e vuole ascoltare, chi sa custodire, apprezzare, accogliere. Non sei solo perché il tuo amore per il teatro e forse il tuo dolore hanno toccato il mio cuore. Così come non è stato inutile che Felice e Franco siano stati a Castelvetrano. Perché loro sanno che le loro parole sono stati semi di bellezza.
E se pure adesso sembra che questi semi siano caduti in un terreno arido, svuotato, stanco, deluso, sfiduciato, io so che i semi sotto terra ci stanno per un giorno germogliare. Dobbiamo essere disposti a morire per rinascere. A perdere qualcosa per accogliere e abbracciare altro. Oggi abbraccio i miei bimbi, quelli del coro DoReMi’, abbraccio Giorgio Magnato, uomo solo e di una dignità immensa. Abbraccio chi ha creduto che portarmi al muro della resa fosse la soluzione o la strategia vincente.
Ma non posso. Lo devo ai bimbi, lo devo ai mei alunni, lo devo ai ragazzi della mia città, lo devo ai letterati e agli artisti che ho conosciuto, amato, presentato e da cui ho imparato molto. Per cui, a fine Palmosafest e a fine 2022, da docente, da scrittrice, da donna che venera le parole, non posso che continuare a costruire bellezza insieme a chi ci crede ancora. Insieme a chi crede che prima o poi il vento cambierà, che la verità è solo figlia del tempo e che al muro della resa nessuno potrà indurmi a stare.
Perché non avrei scelto questo mestiere se non credessi nel valore sacro della Bellezza, unico argine alle brutture e agli orrori del mondo. Se non credessi che proprio i poeti, oggi più che mai, sono le sentinelle vigili di questa bellezza. No, non possiamo dormire, non possiamo tacere, non possiamo rassegnarci. Lo dobbiamo alle voci e ai sorrisi dei nostri figli, eredi di una umanità sfiduciata, smarrita, fragile, violenta, è vero. Ma non possiamo abbandonare i nostri figli al dio del Nulla.
Che il 2023 possa essere un anno coraggioso, un anno in cui decidere di arrendersi solo alla Bellezza. E’ questo, oggi il mio augurio più sentito e profondo per voi tutti.
Bia Cusumano