L'Isola di Nenè e altre storie di Gabriella Vicari: una recensione

Giacomo Bonagiuso ha letto per noi il debutto letterarrio della scrittrice agrigentina

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
04 Ottobre 2021 07:42
L'Isola di Nenè e altre storie di Gabriella Vicari: una recensione

Sembra tracciare la giusta rotta di lettura, Enzo Randazzo, quando nella prefazione a "L'Isola di Nenè ed altre storie" di Gabriella Vicari (edito da SBE nel 2020), offre, come chiave di lettura complessiva del volumetto di esordio della scrittrice agrigentina, quel "riannodare i fili della memoria" connesso ad una nostalgia per una civiltà contadina più vera e certo più densa di significato.

Ma se le storie di Gabriella Vicari fossero soltanto un rimpianto, pur lirico, del tempo che fu, potrebbero aggiungere carta a tutta la carta già prodotta per liberare (o intrappolare) la Sicilia nell'ennesimo equivoco storico. Quello di una tradizione spesso assunta a luogo comune atemporale dal quale è proibitivo uscire se non tramite una fuga, un taglio o un tradimento. Come se la Sicilia potesse essere soltanto una rievocazione anacronistica di muli, carretti e mura screpolate, segni di una storia millenaria sì, ma anche di un futuro che tarda ad arrivare.

Ma è lo stesso Randazzo a volgere questa chiave di lettura ad un orizzonte, almeno a nostro avviso, più interessante. Dice, Randazzo, che la Vicari ha la capacità, rara, di far parlare le emozioni attraverso i luoghi. Ed ha ragione. Questa è la cifra migliore di questi racconti. Gabriella Vicari fa parlare le cose, e sa farlo anche parecchio bene. Crediamo sia la sua dote scritturale migliore. Come il suo Nenè che quando non ricorda la storia per filo e per segno supplisce con l'amore, che non dimentica, e se dimentica, scorda solo i dettagli, non l'essenziale.

Ma in questo libretto c'è anche spazio per l'intreccio, in questi racconti, che pur brevi, riescono ad attirare il lettore verso l'esito, con curiosa partecipazione (come nel caso dei fratelli che sono fratelli solo perché lo dice la madre in "Castrenziu e Fofò"). C'è spazio per qualche lacrima, nel ricordo della madre che non teme nessuna morte, e che sceglie "la sua cura, con cura, nel colore di un frutto maturo", mentre Lui, il padre, il marito, "non l'ha dimenticata" e "sussurra il suo nome al vento, al tempo.

Ha smesso ormai di piangere, ora resta quasi fermo, si riordina dentro". C'è spazio per la storia di Thomas, dottore in scienze bancarie e assicurative cresciuto in Provenza "tra lavande profumate e armonie di natura amena" che vuol fare il musicista e suonare l'armonica, fino a ribellarsi al proprio destino - imposto da altri sulla sua testa - e partire/fuggire per un sogno: il suo. C'è spazio anche per Rosa, infine: tra tutti gli altri personaggi della Vicari, forse la storia in cui più di tutti gli ambienti parlano e le descrizioni fanno da personaggio narrante.

È la storia della battuta più bella, quella in cui prima si fuma e poi si fa all'amore, o meglio si pensa di farlo... Perché poi le cose cambiano, gli interrogativi cadono, i baci sanno di morsi, e l'adolescenza è dietro l'angolo della memoria a tirare spifferi. Il mio amico Peppe Macauda scrive in postfazione che il filo rosso che tiene nel legata l'isola di Nenè, anzi, io direi, che fa del mondo di Nenè un'isola, è l'amore. Che vince la morte, l'amnesia, la costrizione, le zavorre; l'amore che si compone di dignità, ma sa anche essere morso e nuvola di fumo.

Ma sì, anche Peppe ha visto bene. L'esito del mondo di un tempo combinato al dono della narrazione per ambienti, per luoghi, non avrebbe molto senso se Gabriella Vicari non tradisse sempre in ogni virgola un profondo sentimento di appartenenza alle relazioni. Amore. Amore che si fa acqua su cui le isole, tutte, possono galleggiare. E permanere. Le isole, tutte, e le altre storie.Giacomo Bonagiuso

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