“L’ingratitudine e l’ospitalità”: I due volti dei Siciliani

Tra Giano e Ulisse:La Sicilia terra polimorfa. Torna la rubrica "Faro di posizione" curata da Bia Cusumano

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
08 Aprile 2023 09:00
“L’ingratitudine e l’ospitalità”:  I due volti dei Siciliani

La nostra terra è figlia di grandi Padri, eppure spesso con rammarico noi siciliani non siamo figli grati. Indolenza abulica tipica del nostro popolo che purtroppo sconfina spesso nella ingratitudine. E davanti l’ingratitudine gli intellettuali non possono tacere. Giorni fa mi sono imbattuta in un articolo che riguarda due esempi di mancata riconoscenza nei confronti di due grandi scrittori siciliani. Un evento alquanto triste riguarda il nostro Camilleri, letto e tradotto in tutto il mondo, un altro il nostro Sciascia.

Andrea Camilleri aveva autorizzato il comune di Porto Empedocle in provincia di Agrigento, ad utilizzare il nome di Vigata accanto a quello originale. Il documento in cui il grande scrittore aveva compiuto questo gesto simbolico ma di grande generosità nei confronti della sua terra, è stato trovato di recente in una discarica ad Aragona nell’area di stoccaggio. Lì tra le montagne di immondizia giaceva un dono di sacra bellezza. Ragion per cui, l’attuale Sindaco di Porto Empedocle, Calogero Martello ha aperto una indagine- inchiesta per scoprire chi ha sottratto dagli archivi comunali il documento con il quale Camilleri aveva voluto rendere omaggio alla sua città riconoscendola come Vigata, immaginario paese siciliano, in cui sono ambientate le vicende del commissario Montalbano.

Fin qui, cronaca amara che lascia alquanto perplessi su come sia possibile trasformare un gesto di bellezza generosa in un vero e proprio sfregio che lascia senza parole. Ovvero le parole mi giungono spontanee da una riflessione profonda. Ma noi Siciliani non siamo figli dei Greci? In Sicilia non restano impresse le loro orme e tracce di maestosa e insuperabile meraviglia? La loro eredità culturale in tutte le più variegate espressioni? Dalla poesia, al teatro, dalla architettura, all’arte del pensiero profondo e speculativo? Non alberga qui, tra le nostre vie, i nostri paesini, tra scirocco e fichi d’india, tra sole e macchia mediterranea, tra ulivi e colonne dei loro templi, il loro respiro?... E presso i Greci l’ospitalità non era sacra? Aveva un nome ben preciso, ovvero Xenia.

Era una azione sacra e consisteva nel rispetto reciproco tra chi ospitava e l’ospite che veniva accolto e trattato con ogni riguardo e cura. Al momento del congedo, l’ospite riceveva perfino un dono da portare con sé che siglava un sigillo di appartenenza tra l’ospitante e colui che veniva ospitato. Ancora di più, i Greci credevano che nell’ospite, chiunque esso fosse, un uomo ricco o povero, potesse celarsi un Dio travestito da uomo che avrebbe “testato” l’ospitalità del padrone di casa. Nel caso in cui l’ospite fosse stato trattato male, gli dei dell’Olimpo si sarebbero accaniti contro quella famiglia.

La Xenia dunque era un vero e proprio rituale religioso, per cui ogni buon greco non poteva dissacrarlo. L’ospitalità era un segno di civiltà, era indice di un codice morale che non poteva essere tradito. La cultura greca ci consegna l’ospite per eccellenza, colui che peregrino per dieci anni varca spesso come supplice e mendicante le soglie di diversi popoli: Ulisse, l’eroe astuto e perseguitato, l’eroe di Itaca a cui tende sempre senza resa ma che deve sopportare grandi sofferenze e prove.

Eroe che subisce vendette da parte di un fato avverso e spesso ingiusto. Ulisse si ritrova spesso ad essere “ospite” e ad esempio presso i Feaci, viene accolto con ogni riguardo e cura. Sì, siamo figli dei Greci e ben sappiamo quanto sia grande il senso di accoglienza e ospitalità di cui noi Siciliani siamo capaci. Nella nostra terra non si risparmiano dialoghi intensi, abbracci, inviti generosi, affettuose offerte di cibo, vino, dolci verso chi giunge da fuori. Nelle nostre vene, dunque, ancora scorre sangue greco.

Verso lo straniero, scatta in automatico, quel senso di accoglienza protettiva, di aiuto solidale, di disponibilità. L’ altra vicenda amara di queste ultime settimane riguarda Leonardo Sciascia e il suo paesino, un piccolo borgo dell’entroterra Siciliano, Racalmuto. Ecco un’altra storia di profonda ingratitudine nei confronti di uno degli intellettuali più illustri della nostra Sicilia e non solo.

Presso la Fondazione Sciascia è stato deciso di far entrare una congregazione religiosa, nello specifico i Testimoni di Geova per la commemorazione della morte di Gesù, durante la settimana pasquale. La Fondazione Sciascia è sempre stata sede di mostre, convegni, incontri letterari di grande respiro, dedicati ad intellettuali definiti “eretici” come Pier Paolo Pasolini. Ci si chiede come sia possibile, con tante altre sale libere e a disposizione in paese e pur con tutto il rispetto per i Testimoni di Geova, che sia stata attuata una scelta così bizzarra tanto da suscitare la protesta forte da parte della testata giornalistica di Racalmuto “Malgrado Tutto” fondata nel 1980.

La rivista letteraria fin dalla sua prima pubblicazione ha avuto la preziosa firma di Sciascia. Chissà adesso cosa ne avrebbero a dire Camilleri e Sciascia a riguardo. Le vicende che lasciano davvero l’amaro in bocca sono oggetto della mia più profonda riflessione perché mettono in luce due volti speculari ed ossimorici del nostro popolo. I Siciliani sono allo stesso tempo, profondamente ospitali e accoglienti e ferocemente ingrati. Come le porte del tempio di Giano. Giano è una delle divinità più antiche e importanti della religione latina.

Il Dio è raffigurato proprio con due volti, può guardare al futuro e al passato. Il Giano bifronte è il Dio del passaggio e della transizione che può condurre dalla pace alla guerra. “Ianua” infatti in latino significa porta. Un Dio dunque legato ad una doppia e ossimorica valenza. Ricordiamo che le porte del tempio di Giano, venivano aperte o chiuse a seconda che vi fosse guerra o pace. Le porte si spalancavano in tempo di guerra e nel tempio del Dio si compivano spesso sacrifici affinchè si potessero avere vaticini sulla riuscita delle imprese militari e potesse tornare la pace.

I Siciliani dunque hanno questi due volti assolutamente inscindibili. Spesso ingrati e quasi blasfemi nei confronti dei loro stessi figli, per invidia, gelosia, competitività, serrano le porte all’accoglienza, all’ospitalità, alla cura dell’altro portatore di bellezza e poi sono altresì profondamente ospitali nei confronti degli stranieri. Le vicende dei nostri due scrittori, Camilleri e Sciascia, credo ne siano buon esempio. Non occorre certo citare la vicenda di Luigi Pirandello le cui ceneri rientrarono in terra sicula dopo ben venti anni e con il vescovo che non volle dare alcuna benedizione.

Pirandello, dunque, il nostro Premio Nobel per la Letteratura nel 1934, piuttosto che essere accolto in maniera trionfale nella sua Sicilia, venne sospeso in un limbo temporale di più di due decenni per tornare a casa. Insomma anche lui come Ulisse approdò nella sua Itaca dopo un ventennio di traversie. Da intellettuale non è possibile non restare tristemente amareggiata e non pensare a quella tanto diffusa espressione: “Nemo profeta in patria est”.

Frase presente nei Vangeli riferita a Gesù che così stigmatizzò la fredda accoglienza dei suoi conterranei a Nazareth. Quindi, difficilmente nella propria terra a cui si dona l’anima, i propri talenti e risorse, si possono vedere riconosciuti i propri meriti, il proprio lavoro, la propria bellezza? E la soluzione davanti a tanto livore, ingratitudine, invidia sarebbe arrendersi e cercare successo lontano dal proprio paese? Resta questione aperta e problematica. Certo è che molti dei nostri figli siculi, giunti al muro della resa, colpiti e perseguitati da invidie e cattiverie, maldicenze e gogne mediatiche, fanno fagotto ed espatriano, lasciando un vuoto incolmabile di talento, passione, tenacia e sacra bellezza, nella nostra Sicilia.

Giungono altrove in qualsiasi parte o d’ Italia o del mondo e per tutti loro fioccano riconoscimenti importanti, gratificazioni, premi significativi, gratitudine. Non mi rassegno al doppio volto dei Siciliani, alla loro propensione naturale all’ospitalità da degni figli dei Greci e alla loro innaturale ingratitudine per i loro figli illustri che cercano di creare bellezza, di cambiare il sistema, di generare cambiamento. Non posso rassegnarmi né da scrittrice che prende posizione, né da docente che insegna la resistenza ad oltranza e il lessico del coraggio ai propri alunni.

Non mi rassegno da donna che promuove la cultura come l’unica vera forma di antimafia per sfaldare quello stato di rassegnazione, abulia, omertà e collusione. Certo restano emblematiche le vicende dei nostri due scrittori e resta emblematico il destino di molti nostri figli. Ma se la resa è l’unica scelta, la Sicilia è destinata a divenire sempre più un buco nero che risucchia e tritura tutto, sacrificando sull’altare delle colpe e delle invidie la bellezza, madre indiscussa e rotta di vita di chiunque desideri dare un senso al suo umano esistere.

Bisogna ravvedersi in tempo, fermarsi appena un attimo in più sulla soglia di quel famigerato tempio del Dio Giano bifronte. I Siciliani imparino l’accoglienza, la gratitudine, la riconoscenza, la fatica infinita di chi fa cultura in questa terra, senza fondi economici, senza aiuto alcuno, senza mani che si tendono generose. Chi fa cultura oggi in questa meravigliosa e feroce terra è il vero straniero. E’ ospite sacro. Poiché non riusciamo a riconoscerlo come fratello, figlio, sangue delle nostre vene, almeno proviamo a trattarlo come l’ospite dei nostri padri Greci.

Non massacriamo la Bellezza. E’ madre generosa. Accogliamo piuttosto che sopraffare il talento altrui. Se gli altri brillano, la loro luce non toglie nulla alla nostra, anzi il nostro cielo di Sicilia può solo splendere di più. E le Amministrazioni Comunali di tutti i paesi della nostra terra imparino che la cultura non è un orpello, una “cosa” in più da aggiungere o di cui si può fare a meno. Non è il superfluo ma l’essenziale per potere arginare ogni forma di dispersione umana, scolastica, professionale.

I nostri burocrati comprendano che essere amministratori non significa solamente far quadrare il bilancio, perché c’è un bilancio dell’anima che non quadra con i soldi ma solo creando Bellezza, l’unica in grado di cambiare i destini. L’unica arma pacifica in grado di sovvertire le sorti di ognuno di noi. La bellezza crea, come diceva Peppino Impastato, il coraggio di dire no alla rassegnazione di una terra massacrata anche dalla assenza dello Stato e delle sue Istituzioni, spesso distratte, lontane, con lo sguardo altrove, se non proprio colluse con un sistema che non promuove la crescita umana e culturale ma l’assuefazione e la sfiducia.

Fabiana Bia Cusumano

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