L’ELZEVIRO di Giacomo Bonagiuso "Elogio del lathe biosas (vivere separatamente)"

Noi abbiamo costruito la società del giudizio, ma virtuale. Non quella dell'analisi, non quella della cooperazione.

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
10 Agosto 2021 20:00
L’ELZEVIRO di Giacomo Bonagiuso

Mi sono sempre chiesto il senso di molte ossessioni, di tanto dimenarsi intorno all'esteriore. Ho perfino provato a comprendere a fondo questa esteriorità, lasciandomi sedurre per molti anni da Lévinas e dal suo Totalità e Infinito. Nulla. È un libro che consiglio comunque. Seduce con la sua idea che l'esteriorità è quella che ci parla dell'altro. Ma postula dell'altro una idea così garbatamente neutra che rischia di non includerlo nella fotografia.

Ma io, nonostante il pensatore lituano, torno a guardare la buccia del tutto e a non trovare sapore. Ho bisogno di scavare, edificare, togliere superfici per trovare profondità. In questo sono poco rapido e molto, molto antico. Diceva una cosa simile Sœren Kierkegaard, di certo meno moderno di Lévinas, e di certo più ostico nella sua struttura linguistica. Delirante, come la definisce una mia cara amica e studiosa Francesca La Fiora che ha deciso di vivere in Danimarca, folle d'amore per Sœren.

Inoltre, filosofi a parte, mi accorgo che l'egotismo è ormai la faccia unica di un mondo di piccoli regni, troni e scettri di carta igienica destinati all'intaso. Ognuno siede su un trono, quello che ha costruito per dominare su un suddito o due, o per ricevere il plauso di una non meglio identificata platea di like. Pollici. Siamo tornati nella grande Arena romana, dove i gladiatori ricevevano il premio della vita grazie al pollice dell'imperatore, ed ognuno, nell'arena, col suo pollice poteva provare ad influenzarne in giudizio. Il popolo che urla ed esibisce il pollice retto o verso per forzare la volontà del potere. Che immagine!

Noi, oggi, abbiamo costruito invece la società del giudizio, ma virtuale. Non quella dell'analisi, non quella della cooperazione. Per cooperare devi superare la virtualità. La società del giudizio invece si esalta nel virtuale. Il giudizio è espresso, come un caffè, esente da analisi, per questo indolore, diretto. Mi piace o non mi piace. Approvo o non approvo. Nulla di più piccolo. Nulla di più esile. Guardo, vedo, ascolto, leggo... devo soltanto giudicare se tutto ciò solletica la mia ugola o no. Il resto è dislike, ghosting, tutto vedere e nulla capire, approfondire.

Un menù di bucce. Scorci, in siciliano. Esteriorità. Senza verticale, senza una diagonale, un angolo di approfondimento, una lettura critica. Perché la critica, rispetto al facile giudizio, è impegnativa; richiede analisi, richiede sintesi, richiede scavo. Costruire in altezza è più facile, come cadere. Costruire dalle fondamenta molto complesso, e sicuramente più esposto al rischio di non trovare la terra adatta, la roccia giusta, o la falda, la voragine, quello su cui costruire sarebbe follia.

Ed allora ogni tanto bisogna scappar via. Elogiare la fuga dal mondo come una delle ultime virtù rimaste in potere del singolo. Perché puoi reggere mesi e anni nella foresta degli ipocriti e dei narcisi, puoi resistere anni o lustri a non urlare al mondo cosa si nasconde dietro le formule di rito, le concertazioni, lo sparire, ma alla fine tutto questo ti mangia la parte buona dell'anima.

Dovremmo acconsentire a tutto e a tutti, in modo ipocrita, ricevendo la convenienza reciproca, del reciproco nicchiare alle altrui prepotenze. Oppure scegliere di star fuori dal gioco. È la mediazione, dicono. Che si scrive mediazione e di traduce in compromesso. Oppure si può lavorare su se stessi per rendersi lisci come le rocce lippuse, quelle che hanno visto scorrere acqua dolce, salata, liquami, urina e un po' di bibite scadute. Così, alla fine, fai scorrere tutto addosso e te ne frega sempre meno di tutto. È chiaramente un peggiorarsi, un inaridirsi. Ma solo così di colpo puoi essere fuori nell'arena dei giudizi. E ti scorre addosso ogni perdita, ogni ingiustizia, ogni porcheria. Inizi a contemplare un mondo che non c'è più.

Gli Stoici, altri filosofi, avevano intuito che la vita separata è l'unica in grado di testituirci un senso. Non so se felice ma è unica via di fuga da un mondo troppo marcio. Vivere separatamente, con una casacca di roccia lippusa che ti fa diventare impermeabile alla esteriorità di tanti altri. Ma la vita è di una brevità sconcertante per consumarla in piccoli troni e minuscole marachelle.

Da tanto tempo, registi, intellettuali, attori americani che hanno spremuto la sorte e l'hanno capitalizzata in danari, hanno costruito piccoli ranch autosufficienti, con piccolissimi villaggi. Un ritorno ai feudi. Sono strutture autonome dal punto di vista energetico, agricolo e biologico. Ci vivono in venti, trenta come le famiglie di un tempo. Sono delle forme attuative di minimalismo etico che imparano a praticare, vivendo separatamente, quelli che col mondo non possono più mischiarsi perché idoli delle folle.

Chissà che non funzionino anche per chi ormai disprezza ogni folla che non ha il coraggio di analisi che superino la buccia di un pero.

Giacomo Bonagiuso

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