C’era una volta l’Antico mercato del pesce, a Castelvetrano. Sì, lo sappiamo, Castelvetrano è la città degli ulivi, dei templi, del pane nero; per alcuni è la Città di Matteo Messina Denaro, se è vero come è vero, che ai potenti gli amici non mancano mai e Messina Denaro potente lo è per forza, se è riuscito per tutti questi anni a permanere nella latitanza, continuando a comandare su un territorio dove l’eterno scontro tra onesti e disonesti, tra realisti e più realisti del re, tra nuovi e vecchi, e nuovi che fanno accordi coi vecchi (perché le persone, così come i voti, sempre quelle sono e girano come la roulette russa) sembra più una messa in scena ben architettata per mettersi, a turno, la camicia bianca e sproloquiare, quasi sempre per qualche neanche tanto velato interesse personale.
Ma vabbè, gli uomini sono pieni di difetti, e si spera che i giovani non prendano quelli dei loro padri, perché tra tanto passatismo, noi, invece, restiamo convintamente futuristi, cioè crediamo che domani i giovani faranno andare meglio le cose, la città, le idee. Sempre che prima non li abbiamo fatti scappare tutti, lontano, i giovani.
Castelvetrano, però, ha l’olio buono, e il pane gustoso. E lo ripetono a camurria tutti quelli che, di solito, vogliono fare finta che non ci sia niente di marcio nelle viscere del territorio. Se abbiamo il sole, il mare, i templi, l’olio e la vastedda, diamine, potremo mai essere anche mafiosi o solo un poco malandrini? Ovvio che no!
Ma il male non si annida solo nelle cerchie di Messina Denaro, no. Il male, qui, a sud del sud, è ovunque, e spesso si coltiva insieme all’inerzia, alla stasi, alla rassegnazione. Per questo, diremo che c’era una volta l’antico mercato del Pesce. C’era, io me lo ricordo mio padre, che si chiamava Simone, faceva l’avvocato e il contadino, che mi portava per mano a sentire il suono delle parole, li vuci, l’abbanniate, di chi vendeva il pesce, sui banconi di marmo, appena venuto da Marinella o da Sciacca. La sfida tra Sciacca e Marinella, a Castelvetrano, è ed era come un derby; qui si tifa per la sarda locale e per i pesci della marineria di Sciacca. Mazara? Mah, non si fidano, qui, del pesce mazarese. Almeno così dicono i pescivendoli più vecchi. Chissà, verrebbe da dire!
Eppure, Castelvetrano, città di terra e uliveti, aveva uno dei mercati più belli della provincia. A qualcuno c’appa annuiare, come si dice in gergo, e quel mercato prima è stato chiuso, poi è stato nientepopodimeno che concesso ad una associazione culturale che, nientepopodimeno che, in seguito lo ha adibito, lei o chi per lei, a pub. Mizzica: avete capito bene. Oggi se passate da via San Martino vedete ancora i tendoni da pub, con tanto di disegni da movida, e ogni tanto anche quel che resta della notte, delle birrette etc… In un tempo in cui in piazza vengono sgomberati i gazebo che si inghiottivano pure i pali della luce, questo scheletro di abbandono post-movida un poco di impressione lo fa. Pare il segno della legalità a giorni alterni, anzi a parchimetro, come la nuova sosta di un’ora a Via Vittorio Emanuele che costringerà i negozianti a… correre ad aggiornare il parchimetro ogni ora.
Ma torniamo al Mercato del Pesce, dopo che quello non fu più un pub, ora restano mischiati e un poco abbandonati, i terrifici segni della storia: ciò che fu il mercato del pesce e i tendoni di nylon con le scritte modaiole. Uno scempio, insomma. Sarebbe bello se il Comune, che ha pure pensato di vendere lo spazio, udite udite, intanto imponesse il decoro, il ripristino dei luoghi e la loro monumentalità. Insieme magari ad un concorso di idee per ripristinare la fruizione dello spazio originario, non di un mezzo pub, mezzo chiuso, mezzo non so che! Si comincia da ogni angolo abbandonato, disconosciuto, svenduto a chicchessia, a recuperare la dignità del nostro paese.
Abbiamo chiesto a Francesco Saverio Calcara, storico, qualche cenno, e di colpo abbiamo assaporato la magia della storia e l’arte della narrazione: “quel mercato in origine era un padiglione ospedaliero – ci dice Francesco – e soltanto dopo, vennero inserite le arcate, che sono un poco di sbieco, se fai attenzione; fu una soluzione architettonica particolare, e riuscita, visto l’uso”. A testimonianza che gli antichi, quando intervenivano su cose antiche, avevano grazia e modo. “Il sito ospitava originariamente – prosegue Calcara – la cappellina di San Rocco, ed era pertinenza dell’ospedale di Sant’Antonio Abate che si trovava proprio lì.
Dopo di che, intorno al 1877, fu varato un primo progetto che poi fu ampliato per creare l’illusione ottica degli archi a sbieco, per pareggiar la prospettiva della strada stretta in cui si trova il Mercato”. Nel mercato trovano alloggio i bellissimi tavoli con base di ghisa con draghi e i banconi di marmo di Billemi, molto pregiato. Con la sindacatura di Beppe Bongiorno funzionò di nuovo come pescheria, al termine di infiniti tira e molla con le autorità sanitarie. Ma fu una gioia breve.
“Successivamente le misure sanitarie non permisero più la fruizione del sito come pescheria. Dopo la tristissima parentesi da Pub, e i cimeli plasticosi che annebbiano gli archi, ora il sito, almeno il parte, è affidato al CAV, Centro Aiuto alla Vita”, conclude Calacara.
Giacomo Bonagiuso