Il male passa, il bene resta

Bia Cusumano ci propone una riflessione sulla scuola e la società e lancia un prezioso invito ai nostri giovani

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
20 Gennaio 2022 08:00
Il male passa, il bene resta

Ci hanno insegnato, da “buoni siciliani”, che la migliore parola è quella che non si dice. O che il silenzio è d’oro e la parola vale ben poco. Ma sovverto i proverbi e le tradizioni e parlo. Io credo invece che la migliore parola è quella che si ha il coraggio di dire. E così ho sempre fatto nella mia vita: da donna, madre, docente, scrittrice. Non ho scelto il silenzio, durante i miei anni come soluzione, ma le “parole”. Il silenzio mi ha messo sempre a disagio e spesso l’ho trovato essere la strategia delle persone che o tacciono per paura di ritorsioni, soprusi, critiche o tacciono perché in qualche modo si destreggiano nel marasma delle follie e degli abusi altrui, abituandosi a tutto e sopravvivendo senza prendere mai posizione e parte, temendo il giudizio o la condanna sociale.

Oggi parlo da docente pur non entrando in merito alle decisioni del Governo Centrale, del Governo Regionale, delle Ordinanze Comunali, degli scioperi degli alunni, della DAD o DID o della Scuola in presenza. Parlerò da colei che tanti anni fa ha scelto questo mestiere, non perché donna, per cui occupa metà giornata e poi (cosa del tutto infondata) tra lezioni da preparare, compiti da correggere, griglie da allegare, consigli, dipartimenti, incontri scuola-famiglia, collegi e non sto a fare l’elenco completo se no non la finisco più e d’altronde questo credo abbia poca rilevanza adesso, ha tempo libero per sé, per fare la moglie o la madre.

Parlo da colei che ha scelto questo mestiere dopo anni di studio, specializzazioni, gavetta, precariato, concorsi, graduatorie infinite, convocazioni con il patema di finire chissà dove, attese lunghe anni e poi finalmente il ruolo. Parlo da colei che questo mestiere non l’ha scelto per avere il posto fisso e lo stipendio sicuro; no! L’ha scelto proprio per passione, come fosse davvero l’unica scelta al mondo da potere compiere, un po’ come accade con l’amore. Ti innamori di una persona e finché non lo sai spiegare puoi star certo che la ami.

Sì; io potevo fare tante altre cose nella mia vita, il medico forse o la psicoterapeuta o la giornalista o chissà cosa altro e sono sicura che ci avrei messo impegno e dedizione e che qualsiasi cosa avessi deciso di fare alla fine l’avrei amata. Ma nelle mie fibre e nella mia anima pulsava La Scuola come Istituzione, come fosse davvero la mia Itaca. Il mio destino. Nel mio cuore c’erano loro, i miei giovani, con i loro sguardi freschi di innocenza eppure furbi, i loro sorrisi e i loro desideri tutti da realizzare.

C’erano i miei giovani con i loro sogni sul futuro, sull’amore, sulle scelte di vita da compiere. Ho scelto questo mestiere perché penso di “appartenere” ai miei ragazzi, ai miei alunni e a quel mondo per me meraviglioso fatto di aule, corridoi, cattedre, libri, colleghi, abbracci e sguardi solidali, stanchezza, preoccupazioni da condividere, affrontare e superare con tenacia e ardore. Scrivo, perché non mi importa prendere parte al dibattito che divampa sui vaccini: prima dose, seconda, terza, forse quarta, green pass e super green pass, se sia giusto ed etico farsi il vaccino o meno, quale sia il migliore e il più efficace, se abbiano ragione i pro-vax o i no-vax, se dietro vi sia un complotto geopolitico, un gioco di manipolazione di massa delle coscienze, di potere che dall’alto omologa e zittisce o sia una Pandemia da affrontare come un calvario aspettando che l’onda d’urto di questo tsunami passi con pazienza e resilienza, certo facendo tesoro di questa grande lezione a livello planetario.

No, io non parlerò di politica o di scienza, non è mio compito ed esula dalla mie “competenze”. Non sono una virologa, non sono una burocrate. Sono una semplice docente innamorata del suo mestiere e scrivo da docente di un Liceo in cui proprio oggi si respirava un’aria così triste e di smarrimento che forse piangere sarebbe stato naturale se solo non fossi una adulta e mi si imponesse la disperata necessità di dare coraggio e forza ai miei giovani studenti. Classi falcidiate dalla DID.

Classi in DAD. Classi in presenza. Alunni bardati da mascherine e cappelli per il freddo, causa riciclo d’aria necessario per arieggiare i locali, per cui guardare negli occhi i miei ragazzi era quasi un “miracolo”. E di quegli occhi voglio parlare, di quei volti e di quelle voci. Abbiamo fallito, non siamo stati un grande esempio di coerenza, coraggio e correttezza per i nostri giovani, li abbiamo cresciuti nell’insicurezza, nella paura, nell’incertezza di una giostra della morte impazzita, di una folle burocrazia che sovverte il giorno stesso quello che asserisce sia vero il mattino.

Voglio parlare di quelle voci spente come fossero diventati automi i nostri ragazzi, dopo due anni di gioco infernale, tra scuole aperte, scuole chiuse, scuole declamate luogo sicuro, scuole incriminate come luogo del contagio. Voglio parlare della loro sofferenza e della loro angoscia. E del fatto che tutti presi da nuove e continue ordinanze e circolari che si susseguono con tempi da panico o da urlo e tra chi confuta e chi smentisce, chi urla e chi comanda, nessuno forse ha fatto ai nostri ragazzi la domanda più banale del mondo, forse la più scontata ma quella che racchiude l’essenza del nostro mestiere che mette al centro la relazione umana, prima ancora di competenze, conoscenze, voti, griglie, unità didattiche e progettazioni; “Ragazzi, come state? Come state resistendo a tutto questo? Avete paura?” Sì, pure noi adulti, abbiamo paura, siamo confusi, ci sentiamo demotivati, angosciati e non sappiamo quanto durerà, quando passerà.

Ragazzi avere paura e sentirsi così fragili e impotenti non è una colpa. E voi, non avete nessuna colpa. Adesso piuttosto che andare avanti con il programma ci fermiamo. Chiudiamo questi libri e ci ricordiamo, tutti quanti, l’essenziale: siamo uomini. Dobbiamo ripartire da qui. Coraggio, facciamo come in guerra che si faceva scuola pure sotto le bombe. Perché tanto, le bombe, le abbiamo nella testa. Guardo i vostri occhi da donna e da docente e non mi importa se non siete preparati sulla lezione del giorno o che se dopo due anni di Pandemia e di tunnel dell’orrore forse non ce la faremo a chiudere il programma in tempo, mi importa non farvi sentire soli.

Mi importa adesso accarezzare i vostri cuori feriti, i vostri sogni rubati e chiedervi scusa a nome di tutti noi adulti perché abbiamo fatto un gran disastro. Scusateci se abbiamo fallito, se vi abbiamo amato poco, compreso poco, ascoltato poco, aiutato poco, forse troppo presi da noi stessi, dalle nostre carriere, dalle nostre aspettative, dalle nostre ambizioni. Vi abbiamo consegnato un vero e proprio disastro planetario ma voi siete adorabili, perché avete imparato a sorridere con gli occhi, a resistere e ancora sapete emozionarvi e ringraziare se qualcuno vi tende una mano.

Ragazzi ce la faremo, ve lo prometto! Perché sempre dalle macerie ci si rialza e si torna a splendere. Avrò cura di voi, delle vostre emozioni, del vostro stare male, della vostra abulia ed apatia, avrò cura di voi più che del mio registro elettronico. Posso permettermi di sbagliare come docente ma non voglio sbagliare ancora come adulta nei vostri confronti. Coraggio, prendete adesso il vostro sorriso migliore, la vostra forza, pensate alla cosa più bella che avete e ribellatevi a chi vuole rubarvi i sogni.

Siate come Antigone. Imparate anche a “disobbedire”. Non abbiamo bisogno di macchine ma di uomini, di persone che credono di essere universi unici ed irripetibili e voi lo siete. Ripartiamo dalla Scuola vera e dalla sua stessa essenza: l’amore per ciò che ci vede ancora qua, dopo secoli. Perché le parole, ragazzi miei, non sono parole. Cambiano i destini, anche i più bui e tormentati e la bellezza vince sempre sull’orrore e salva. Ripartiamo insieme perché io questi vostri volti spenti e queste vostre voci rassegnate non le reggo più.

E sono peggio di cento dosi di vaccino e di mille mascherine. Giuro. Riprendetevi l’entusiasmo. Splendete. Sono i vostri anni più belli, non abbiate paura. Io come molti altri docenti siamo qua ad ascoltare, più che Manzoni e Pascoli, voi e se poi agli scrutini avrete un voto in meno ma anche una cicatrice sui polsi in meno, avremo vinto lo stesso. Se poi agli Esami di Stato incepperemo su un autore ma avrete gli occhi pieni di luce ed emozione, giuro, avremo vinto lo stesso. Vinceremo solo se vi salverete dalla convinzione che niente cambierà mai più e nulla ormai vale più la pena.

Vinceremo se tornerete a credere, a sognare, a sperare, a innamorarvi e a non sentirvi falliti o sbagliati se in pagella non ci saranno tutti nove e dieci. Poco importa a me adesso questo. Ma i vostri occhi sì, mi importano e i vostri sorrisi pure. E oggi, tornando a casa, mi sarei messa a urlare non per i miei disagi da docente, tra green pass da verificare, PC che non si connettono, certificati da controllare, mascherine, igienizzanti, visiere, ma per il vostro dolore che ho visto, toccato, sentito e mi sono portata appresso.

Vi chiedo scusa se ho preteso troppo come docente, oggi mi avete insegnato più voi con il vostro dolore che io con tutte le mie presunte, e chissà “presuntuose”, lezioni di letteratura. Non lo scorderò. Grazie per il privilegio di essere vostra docente proprio in questo terribile periodo storico. Non arrendetevi, vi prego.

Il male passa, il bene resta.

Bia Cusumano

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