Leggo il libro di Barbara Giangravè “In Clinica Psichiatrica c’è il Glicine Fiorito” edizioni Fides a grandi boccate di ossigeno o come direbbe lei di nicotina e mi scivola dentro e si rapprende in tanti grumi di dolore amaro come deve essere il gusto del tabacco nella la bocca (non sono una fumatrice). Eppure quel sapore deve essere rassicurante e necessario se chi fuma ha così tanta difficoltà a smettere. Mi chiedo se anche il dolore sia paradossalmente necessario per scrivere pagine così intense e forti. In alcuni casi, leggendo, le parole mi sono giunte come pugni ben assestati in pancia, altre volte come dolcissime nenie che mi hanno ricondotto alla mia infanzia e poi ai mei studi universitari. È quasi inevitabile per me approdare ad Alda Merini e al suo “Diario di una Diversa”.
Anche allora, erano tempi universitari per me, la lettura delle pagine di Alda mi provocò sensazioni contrastanti. Una dolcezza struggente si mescolò ad un dolore che camminava sotto pelle e si propagava a grandi e non viste onde in vena. Parlare di dolore psichico è una scelta di nudità assoluta. Una scelta coraggiosa, lucida, consapevole. È rompere un muro alto e spesso costruito di aberranti pregiudizi, colpe, accuse tacite o esplicite. Mi rividi in quel romanzo di Alda, mi rivedo nel romanzo di Barbara.
Perché la storia dei pregiudizi e delle colpe mi è familiare, consuona e tocca corde di mia personale crescita e formazione umana e culturale. Certo, io non ho vissuto l’esperienza della clinica psichiatrica come nel caso di Barbara Giangravè o ancora peggio l’esperienza dei manicomi ante-legge Basaglia del 1978 come accadde ad Alda Merini. Ma ho dovuto pagare anche io, per altre vicissitudini di salute, il prezzo marcio del giudizio e della colpa in cui precipiti se la tua salute traballa, se hai una patologia subdola che ti ingoia eppur non si vede e non si tocca come si può fare con un braccio rotto o una gamba spezzata.
Come se poi avesse più dignità il dolore che si vede rispetto a quello invisibile o silente. Sempre dolore è, sia che si tratti di cancro dell’anima di cui parla la Giangravè, sia che si parli di “esaurimento nervoso” di cui fu tacciata la Merini, sia che si tratti di fibromialgia nel mio specifico caso. Qualcosa di rotto c’è sempre. Non fuori, nell’aspetto esteriore che appare nonostante tutto curato. Barbara in “cella psichiatrica”, come la definisce lei, continua a depilarsi, continua a spinzettare le sue sopracciglia, continua a lavarsi e vestirsi, riesce a scrivere al pc.
La stessa cosa accade ad Alda Merini, continua nella degenza in manicomio, a concepire versi, ad incontrare anime disperse e abbandonate come lei, continua perfino ad amare. Nonostante gli orrori del manicomio, la vita si insinua sempre. E sembra dircelo proprio Barbara. Perché quel “glicine fiorito” è il simbolo di una bellezza che esiste e resiste in un luogo fatto di flebo, di coperte vecchie e sature di acari, di lenzuola poco profumate, di bagni igienicamente precari, di odori di farmaci o di sanitari che in maniera meccanica sembrano ripetere ogni giorno il copione di una normalità sgangherata.
Il tempo è scandito dai pasti e dalle medicine che accompagnano i pasti. Per il resto vi è il vuoto, il nulla, il silenzio, il sonno, un torpore assente in cui volere cadere. Ma vi è il glicine fiorito che si riversa sopra una panchina in cortile. Un cortile che è luogo di incontro tra malati di mente, tra i presunti pazzi che tanto fanno paura perché mettono a disagio i presunti sani. Mi sono sempre chiesta perché non proviamo lo stesso imbarazzo e disagio se incontriamo un altro essere umano con una stampella o un braccio ingessato e invece incontriamo una persona che sappiamo soffra di depressione, attacchi di panico o sia bipolare o schizofrenico.
La risposta credo di averla trovata nei mei lunghi anni di analisi quando dovevo imparare a gestire il dolore cronico causato dalla mia patologia invisibile ma reale. Fu proprio la mia dottoressa a farmi riflettere fornendomi una chiave di lettura che poi fu spunto di grande introspezione e studio per me. La malattia mentale ci mette in connessione immediata con le nostre parti malate. È un richiamo inappellabile e inderogabile alle nostre ombre, ai nostri demoni interiori, ai nostri punti oscuri, alle nostre crepe.
Ci strattona e ci ricorda che non siamo solo belli, forti, sicuri, saldi nel nostro micro cosmo illusorio di onnipotenza. La malattia mentale è uno specchio che squarcia il costato della nostra presunta e tronfia normalità. Ci denuda, ci sbatte in faccia che anche noi possiamo cadere e farci male. Anche noi soffriamo, piangiamo, desideriamo fuggire, crollare, a volte perfino farla finita. La malattia mentale è pericolosa perché sovverte la prospettiva ingannevole che tutto vada bene nelle nostre vite, che abbiamo tutto sotto controllo, che noi non abbiamo bisogno di nessuno e soprattutto possiamo fare a meno di aiuto.
Invece è esattamente il contrario. Siamo fragili, esposti al dolore, al fallimento, alla caduta, alla perdita di equilibrio e di controllo. Pulsioni feroci e potenti si annidano dentro noi e costa una fatica immensa riuscire ad accettarlo. Insomma i sani non esistono. Ma sul concetto di presunta e necessaria sanità mentale si regge e regola il sistema sociale e il consesso civile per cui al sistema imperante va sacrificato, tenuto occulto, segregato, messo a tacere chi ha il coraggio di scoperchiare il vaso e di urlare: “Sto male! Sto male! E il mio dolore non va in deroga!”.
No, il dolore non va in deroga e richiede ascolto, asilo, accoglienza, aiuto. La salute mentale tocca e scardina un altro punto fondamentale su cui si regge il sistema vigente che ci vuole performanti, di successo, produttivi e sempre sul pezzo, senza stonature o sbavature. Il dolore richiede aiuto e la capacità di farsene carico. Non ne siamo disposti. Abbiamo troppo poco tempo e il dolore richiede tempo e fatica. Siamo tutti immersi in una corsa frenetica e non possiamo permetterci il lusso di farci carico del fardello pesante della vita altrui, di accoglierne lacrime, sconfitte e traumi.
La dimensione del dolore altrui richiede la capacità di spogliarci dei nostri problemi, delle nostre ferite, del nostro stare male tenuto occulto dietro una bella maschera di sorrisi e trucco, per dare spazio al dolore insondabile e sfuggente dell’altro. Nell’ingranaggio di una società che non ha voluto coltivare la sensibilità di ascoltare e accogliere è una dispersione di tempo e di energie che nessuno può permettersi. Dove non esiste la dimensione dell’ascolto si insinua il lager, il ghetto, una zona di confine e di demarcazione netta.
Chi soffre da una parte, chi sta bene o finge a denti stretti di starci, dall’altra parte. Ecco la necessità di imbottire i malati di mente di farmaci all’ennesima potenza. Perché i primi che devono essere storditi, per non sentire l’atrocità del dolore, sono proprio loro, poi tutti gli altri a cascata. Perché ciò che non si sente o vede, facilmente si può credere non esista e ciò che non esiste non fa paura, non scardina e non sovverte, tranquillizza le coscienze e le mette a riparo da eventuali concorsi di colpe.
Perché se c’è chi sta così tanto male forse una parte di colpa è anche nostra. Forse abbiamo sbagliato in qualcosa come genitori, figli, compagni, amici, fratelli, colleghi. Ma non possiamo accollarci questa colpa. Così, meglio ghettizzare il dolore, chiuderlo dentro un recinto, farlo stare zitto e buono in attesa che la chimica faccia il suo corso. E la chimica farà il suo corso senza dubbio o forse no. Forse allungherà soltanto i tempi, ritarderà una altra esplosione di dolore, un altro urlo disperato: “Sto male! Sto male! Aiutatemi!”. Trovo il libro di Barbara Giangravè terribilmente attuale, brutalmente autentico e ferocemente sovversivo.
Ecco cosa deve fare la letteratura, quella buona si intende, quella vera. Di sicuro non deve anestetizzare, tranquillizzare, sedare, consolare. Già siamo troppo sedati e messi a tacere, siamo troppo narcotizzati da una società che soddisfa i bisogni del corpo in maniera istantanea ma non sa farsi carico di quelli dell’anima. La vera letteratura è sempre rivoluzionaria, irrequieta, destabilizzante. Deve rompere, irrompere, scuotere, provocare, squarciare e sollevare domande di senso irrisolte.
Deve essere come quel “glicine fiorito” bello e seduttivo eppur fatto di baccelli velenosi. La parola deve essere farmaco, nel senso etimologico del termine. Farmaco nella stessa accezione di cura e veleno. Perché se la parola non fa emergere il veleno tossico che si annida dentro noi, non lo getta fuori, non ci permette di guardarlo, toccarlo e attraversalo, non può essere farmaco in grado di guarirci. Farmaco in grado di curarci. Ecco la potenza del libro di Barbara. Le sue parole sono come i baccelli velenosi del glicine.
La vita lo è. È somma bellezza e sommo dolore. È sanità e malattia. È strazio e canto. È paura di morire e voglia di sopravvivere aggrappati ad un amore antico o futuro, ad un progetto, ad un sogno, ad un genitore, a chi vogliamo bene, alla nostra devozione alle parole, ai nostri desideri. La vita non ha quel muro immaginario in cui da una parte ci sono i sani e da un’altra parte i malati. Siamo tutti malati in cerca di cura, di ascolto, di amore, di salvezza e siamo tutti sani in grado, se vogliamo, di accogliere, ascoltare, farci carico delle ferite e dei demoni altrui.
La malattia mentale è uno specchio potente in cui guardare se e quanto riusciamo a fare i conti con la nostra umanità, pochezza, finitezza, miseria, piccolezza. Non possiamo sottovalutare il dolore dell’altro solo perché non è il nostro. Non possiamo girare lo sguardo da un’altra parte solo perché in ballo non c’è la nostra specifica vita. “Chi non si fa carico del dolore dell’altro non è degno di essere chiamato uomo”, così diceva Alda Merini. Così Barbara afferma nelle ultime pagine del suo romanzo: “(…) il calore di un abbraccio, la sorpresa di un bacio e la bellezza di una carezza sono vitali.
Perché la vita è fatta di amore: amore per se stessi, amore per gli altri, amore per l’esistenza stessa. Esattamente tutto ciò che la malattia toglie. Perciò, ve ne prego, non sminuite mai la depressione: né quella vostra né quella di un altro essere umano.”
Leggetelo il libro di Barbara Giangravè. Non è assolutamente un banale diario di una donna affetta di depressione come non lo è Diario di una diversa di Alda Merini. Ognuno di noi ha la possibilità di ritrovare esattamente quello che è: “un uomo”. Una creatura impastata di luci e ombre, di squarci e miracoli, di baccelli velenosi e di fiori profumati. Nessuno si senta esente, al riparo dalla malattia mentale, dal baratro, dal dolore, dalla sofferenza psichica. Nessuno creda di non avere bisogno dell’altro, della sua presenza, cura, conforto, ascolto. Nessuno creda di bastare a se stesso e di essere artefice onnipotente del proprio destino. In ognuno di noi vive e respira un “glicine fiorito”.
Bia Cusumano