Cronaca di una giornata storica. Esco da scuola, trafelata, sono in piedi dalle sei, tre ore con i mei“piccoli” di Liceo, se mi leggono di sicuro si arrabbiano. I ragazzi di Liceo si sentono sempre grandi, per me, sono sempre i miei piccoli. Di corsa dalla Dirigente del Polo Liceale, bolle in pentola un progetto importante sulla parità di genere. Si cerca di definire i dettagli, di fare scelte sensate sugli ospiti da invitare. Ho un pranzo già programmato e un pomeriggio da dedicare ad una conferenza che si svolgerà a breve.
Decido di fermarmi un attimo, giusto il tempo di un caffè. Cerco maldestramente di posteggiare l’auto perché squilla il telefonino. E’ Felice Cavallaro, non posso non rispondere. “Professoressa, che aria tira a Castelvetrano, dopo la morte del boss?” – ha il solito tono da grande signore della penna. Sento scorrere i tasti della tastiera mentre mi parla. Voce calma, rassicurante, da professionista che sa cosa chiedere, in che maniera e senza troppi fronzoli. La morte del boss. Mi chiede altre informazioni, rispondo, scambiamo due chiacchiere.
Mi lascia con la sua garbata gentilezza, mi ringrazia per averlo aiutato. Sono certa che domani sul Corriere della Sera ci sarà un suo imperdibile pezzo. Mi scrive dopo che sì, probabilmente domani. Mi terrà informata. E’ una data storica per Castelvetrano. Lunedì 25 settembre 2023. Il caffè lo prendo ma i pensieri sono tanti, troppi. Muore Matteo Messina Denaro, prima latitante per 30 anni, poi arrestato dalle Forze Dell’Ordine lo scorso gennaio. Muore il mandante e il carnefice di centinaia di persone, tra gente comune, magistrati, giudici, mafiosi di clan avversari, piccoli e giovani di questa terra di Sicilia.
Muore divorato da un cancro. Muore e vi è silenzio in giro. Quando fu catturato si scatenò un vero e proprio assalto mediatico. Campobello e Castelvetrano furono presi d’assedio da giornalisti di ogni emittente televisiva e radiofonica. Si respirava come immersi e sommersi dentro un grande set cinematografico dai risvolti perfino surreali. Tanti di quei dettagli rivelati che l’arresto del boss ad un certo punto si trasformò in una sorta di “cortile” morboso, in cui si susseguivano a tamburi battenti rivelazioni che sembravano più gossip che verità sull’ultimo capo di Cosa Nostra.
Siamo venuti a conoscenza di tutto: dal supermercato in cui andava a fare la spesa, al bar presso cui andava a bere e ad offrire il caffè, dalle tante donne e amanti, agli oggetti contenuti nel suo ultimo appartamento, alla collezione di occhiali, orologi e libri. Insomma abbiamo saputo tutto sulla sua vita privata, intima, domestica ma su chi lo abbia protetto sul serio per i trenta anni di latitanza tanto da permettergli di vivere come nulla fosse, nel piccolo paese di Campobello e di aggirarsi “non visto” e “non riconosciuto” da tutti e soprattutto direi, dalle Forze dell’Ordine, no.
Ancora oggi nessuno sa (?) o forse in pochi sanno ma è segreto che rotola nella bara insieme al suo corpo senza vita, chi lo abbia protetto, sostenuto, aiutato, per permettergli una vita direi abbastanza normale. Dall’arresto alla morte sono trascorsi davvero pochi mesi. Il cancro era in uno stadio avanzato. Muore con lui una cupissima epoca di stragi efferate, uccisioni agghiaccianti, tra cui non posso non pensare ai tanti giovani e piccoli e tra tutti a Giuseppe Di Matteo. A Castelvetrano si respira oggi un’aria sbigottita e campeggia il murale affrescato sulle mura di una scuola elementare sita nel quartiere di nascita del boss, in via Ruggero Settimo.
Il piccolo cavallerizzo, Giuseppe Di Matteo, immortalato in una immagine che sembra voler proprio suggerire un balzo in avanti. Non sono una giornalista, non sono una criminologa, non sono un giudice o un magistrato. Sono una comune cittadina di Castelvetrano ma con una responsabilità grande. Prima di ogni cosa, sono una docente, poi una scrittrice. Non posso esimermi dal prendere il pc. La stanchezza è tanta. Sono giorni frenetici ma la voce di Felice è il grillo parlante della mia coscienza.
Quella sua telefonata ha frenato bruscamente la mia mattinata e ha invertito la direzione della mia intera giornata. Devo scrivere. Cosa? Impressioni, sensazioni, odori, visioni, ricordi. “Che aria tira a Castelvetrano?” - la domanda che rimbalza nella mia testa. Neanche al bar si parla della morte di Matteo Messina Denaro, consumo il mio caffè lentamente cercando di guardare i volti dei mei concittadini. Nessuno commenta niente. Neanche a scuola la notizia sembra abbia fatto clamore. Nelle classi in cui sono stata, nessuno mi ha rivolto domande.
I miei colleghi parlano dei progetti che a breve si devono realizzare. Accolgo mio padre a pranzo e neanche lui fa riferimento a nulla. Sono io che apro l’argomento. E allora? O tutti eravamo così stanchi e sfiniti dalla presenza prima aleatoria, poi reale del boss e non aspettavamo altro che pronunciare la parola fine o ancora una volta: “la migliore parola è quella che non si dice”. Per cui meglio non parlare della sua tragica fine. Fare finta che oggi sia una giornata uggiosa di fine settembre in cui è anche venuto a mancare il boss dei boss.
Cosa altro aggiungere? Resto interdetta … muore Matteo Messina Denaro e non muore come il fantasmagorico capo dei capi. Imprendibile, invincibile, onnipotente, colui che tutto può sulla vita e la morte degli altri uomini. Muore divorato dal cancro come un uomo qualunque, come chi nonostante sia un criminale, uno stragista, un boss, non può sottrarsi alla morte che gli cova dentro ormai da tempo. Forse ha potuto evadere la giustizia terrena, ogni forma di legge morale, etica, civile, sociale, umana ma davanti la malattia muore tra dolori e pene indicibili.
Muore non solo un capomafia, muore una lettera scarlatta per Castelvetrano, un mito in negativo, un antieroe per tante persone, per tanti giovani, muore un periodo storico, muore un pezzo di calvario per una Sicilia che ha il diritto di essere libera e non saltare più in aria, sotto colpi di fucile o bombe al tritolo. Strana coincidenza: sabato 23 settembre presso l’ex Convento dei Minimi, abbiamo avuto ospite a Castelvetrano, Giovanni Impastato, fratello di Peppino fatto esplodere in aria dalla mafia nel 1978 e la testimone di giustizia, Valeria Grasso, imprenditrice che ha subito estorsioni e minacce di morte da parte del clan dei Madonia, a Palermo.
Giovanni ha ribadito più volte che non servono la vendetta, l’odio, il rancore. Serve prendere le distanze dal lessico della mafia. Serve prendere posizione, scegliere da che parte stare. Serve verità per essere liberi. E allora questa morte urla sete di verità. Non vuole dire altro. Castelvetrano ha il diritto di sapere la verità. Tutta la nostra terra ha il diritto di sapere la verità. Non vi è giustizia senza verità. Non vi è giustizia senza libertà. Oggi siamo una Castelvetrano libera da un uomo, da un boss che a tutto e a tutti si è potuto sottrarre tranne che alla legge della natura, alla legge della genetica, alla legge non scritta della “memoria del corpo”.
Penso da scrittrice che in questa morte vi sia la parabola conclusiva di chi nella propria vita ha perpetrato la legge della morte sugli altri, la stessa alla quale paradossalmente lui non ha potuto sottrarsi, nonostante le protezioni, il potere, i soldi. Il suo corpo avrà trattenuto memoria di ogni morte inflitta e a sessantuno anni questa morte l’ha materializzata nelle proprie cellule. Una gestalt di sangue e orrore si chiude. Una città satura e sfinita dall’essere etichettata ovunque nel mondo come la città che ha dato i natali al super boss, respira.
Una morte che adesso esige non silenzio e dimenticanza, non oblio ma verità. Dimenticare è la via comoda e spesso ai siciliani è congeniale. Ma mettere la testa sotto la sabbia non serve. Lo struzzo prima o poi vomita. Che sia giunto dopo trenta anni, il momento di avere il coraggio di pretenderla la verità? La natura si è vendicata da sola, il male lo fa sempre. Non ha bisogno di artifizi per vendicarsi o stratagemmi. Il bene adesso è ripartire da questa morte non con la fretta malsana di chiudere il cerchio nell’oblio ma di svegliarsi da questo torpore sonnolento.
Lo dobbiamo ai tanti, troppi uomini che sono morti ammazzati nel peggiore dei modi, nel nome di Matteo Messina Denaro. Ancora una volta, è Felice Cavallaro a ricordarmi che il lessico della verità è l’unico possibile da scegliere. Giovanni Falcone diceva: “Vogliamo cambiare il mondo? Bene, ognuno faccia semplicemente il proprio dovere!” Ai Castelvetranesi, ai mei concittadini, ai miei ragazzi, alla mia terra auguro adesso di imparare che non serve l’odio per cambiare le cose, né la vendetta, serve fare il proprio dovere, con responsabilità e consapevolezza.
Serve avere il coraggio della verità.
Bia Cusumano