Debutta la rubrica di F. S. Calcara Appunti e Storie castelvetranesi: Due eroi dimenticati

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
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29 Maggio 2018 11:34
Debutta la rubrica  di F. S. Calcara Appunti e Storie castelvetranesi: Due eroi dimenticati

Nel corso di questi nove mesi primapaginacastelvetrano.it  è cresciuto sia nei consensi che nel gradimento dei nostri lettori e per tale motivo è noi motivo di particolare orgoglio accogliere tra le fila dei nostri collaboratori Francesco Saverio Calcara, docente nei licei ed oggi in quiescenza, storico ed esperto di costume, politico navigato, una delle più preziose intelligenze cittadine, che da oggi curerà una rubrica con cadenza settimanale, e nella quale ci racconterà con il suo inconfondibile stile, e con dovizia di particolari, personaggi e situazioni sopite dal tempo , ma che meritano di essere portate alla pubblica conoscenza.

Cominciamo oggi con la storia di due sfortunati eroi che perdettero la vita nel...leggete l'articolo e lo scoprirete:   nella foto Francesco Saverio Calcara «Palermo, 7 Luglio 1854. Lo sbarco furtivo sul lido siciliano dei due fuoriusciti Giovanni Interdonato e Giuseppe Scarperia; la loro breve dimora a pie’ libero nell’Isola; i provvedimenti adottati dal Real Governo onde stringerli per ogni verso affinché l’ordine pubblico, guarentigia di riposato vivere alle tranquille popolazioni, non avesse a risentire menomamente gli effetti di sconsigliati proponimenti; il loro presentarsi agli agenti dell’Autorità tutelatrice dell’interna sicurezza: tutto questo non poteva non dar largo argomento alle fantasie di quella stampa periodica, la quale della cronaca contemporanea fa un romanzo inverosimile per poter meglio giudicare gli avvenimenti a seconda delle proprie passioni e dei propri interessi…».

Tale l’incipit di un articolo che il filoborbonico “Giornale dell’Armonia” di Palermo pubblicava al n. 53 di quell’anno 1854; numero fortunosamente conservato nel nostro Archivio Storico Comunale che, nel corso di un’altra indagine, per caso mi è capitato tra le mani. Spinto dalla curiosità, mi son dato a qualche ulteriore ricerca che mi ha consentito, spulciando soprattutto gli appunti di Leonardo Centonze, nonché un opuscolo di Giovanni Asaro[1], di ricostruire una vicenda dimenticata della nostra storia risorgimentale, relativa al fallito tentativo esperito dal castelvetranese Giuseppe Scarperia di provocare, nell’estate del 1854, l’insurrezione della Sicilia contro i Borbone.

In verità, l’iniziativa del patriota castelvetranese era stata preceduta, l’anno precedente, da due maldestri tentativi, ispirati da Pasquale Calvi – carbonaro repubblicano, ministro del governo siciliano dopo i moti del ‘48 ed esule a Malta – finanziati dal siracusano barone Emanuele Francica Pàncali, e messi in opera dal messinese Luigi Pellegrino. Arrestato dalla polizia borbonica, il Pellegrino fu condannato a 28 anni di carcere duro da scontare nel carcere di Favignana[2].

Un altro velleitario sbarco, nella marina di Castelvetrano, fu posto in essere, sempre su ispirazione del Calvi, dal santaninfese Vincenzo Patti che, da Malta, dove di era confuso col gruppo dei patrioti per sfuggire ad una condanna a morte per omicidio, venne in Sicilia, munito di lettere pei patrioti trapanesi, convinto che vi fosse ad attenderlo un numeroso gruppo di congiurati pronti a innescare l’insurrezione nell’Isola. Ma tradito, non trovò nessuno e, a quanto pare, preso dallo sconforto, si uccise[3].

Ma veniamo finalmente all’impresa tentata dal nostro Scarperia. Fu questi, dopo fra’ Giovanni Pantaleo, la figura più eminente tra i garibaldini castelvetranesi, caduta inspiegabilmente nel generale oblio. Così lo descrive il Centonze in una sua nota manoscritta: «Animoso, intrepido, dall’impeto focoso, pieno di fede nella riscossa italica, si sentiva portato ai più arditi tentativi e alla realizzazione di cose grandi»[4].

Il suo ritratto fisico risulta, invece, da un bando inviato ai sindaci di Sicilia, il 2 giugno 1854, dall’Intendenza della provincia di Messina, dove il Nostro viene cognominato “Scarparia”: «da Castelvetrano, d’anni 26 circa, statura alta, capelli neri, occhi neri, senza barba, naso aquilino e poco rosso, carnagione pallida»[5]. Un bel giovane, ardito e coraggioso, lo possiamo immaginare, il quale aveva cominciato prestissimo a cospirare contro i Borbone, tanto da ritrovarsi, dopo molte drammatiche vicende, nel 1854, esule a Malta.

Colà, lo Scarperia strinse amicizia con un altro esule politico, tal Nicola Fabrizi, col quale progettò un temerario sbarco in Sicilia onde fare insorgere l’Isola, convinto com’era della collaborazione dei congiurati locali. Nel piano furono presto coinvolti Francesco Savona da Messina e Giovanni Interdonato da Roccalumera, esuli pur essi a Malta, i quali pare fossero in contatto con altri fuoriusciti italiani, rifugiatisi a Costantinopoli, in particolare con un certo Giorgio Arnò, i quali li avrebbero incoraggiati all’impresa.

Sia come si vuole, la notte del 22 maggio 1854, Scarperia, Savona e Interdonato si impadronirono (o noleggiarono, secondo altra versione) di una barca maltese e fecero rotta verso Messina contando di arrivare a una spiaggia vicina alla città, dove sembra dovessero attenderli altri cospiratori siciliani. Tuttavia, a causa del mare grosso, i congiurati furono costretti a rinunciare a quell’approdo e pur di prendere terra riuscirono a raggiungere la spiaggia di Roccalumera (allora comune di S. Ferdinando), località nei pressi della quale si trovava la casa paterna di Interdonato.

Ma qualcosa dovette andare storto, giacché l’oculata polizia borbonica, particolarmente attenta in quel periodo al controllo delle coste a causa del colera che imperversava soprattutto a Messina, si mise sulle loro tracce e andò loro incontro sulla strada della città zanclea. Seguì uno scontro a fuoco, nel corso del quale un gendarme fu ferito, mentre i cospiratori riuscirono a sbandarsi per essere, comunque, catturati dopo qualche giorno. Pare che, in verità, fu il padre dell’Interdonato, preoccupato delle probabili ritorsioni poliziesche sul resto della famiglia[6], a convincere Scarperia e il figlio Giovanni (di Savona non si hanno notizie, e il rapporto della polizia sostiene addirittura che non pose piede in Sicilia), rifugiatisi nel bosco di Tremonti, a consegnarsi alle autorità, cosa che avvenne – secondo la versione ufficiale – il 7 giugno.

Nel portafogli dell’Interdonato - che dichiarò di essere venuto in Sicilia per provvedersi delle fedi di stato libero onde sposare una giovine maltese e di essersi fatto accompagnare dallo Scarperia cui lo legavano vincoli di intima amicizia – venne trovata una lettera compromettente scritta da un tal Giorgio Arnò di Costantinopoli. Tuttavia, nel processo intentatogli l'anno dopo davanti alla Gran Corte criminale di Messina egli fu condannato a trenta mesi di reclusione per infrazione delle leggi sanitarie e forse scontò una parte della pena a Ustica, dove il 16 maggio 1858 sposò la diciassettenne Teresa Longo.

 Analoga pena fu comminata a Scarperia. Come si vede, il fatto criminoso venne derubricato da tentativo di rivolta contro lo Stato a semplice inosservanza delle disposizioni sanitarie in tempo di colera; benevolenza che l’Asaro attribuisce alla triste circostanza della morte di due fratelli e di due zii di Interdonato, colpiti fatalmente dal contagio, nella stessa prigione dove tutti erano incarcerati[7]. La portata dell’episodio fu pertanto sminuita dalla stampa governativa che ne diede notizia in un trafiletto del “Giornale Officiale di Sicilia”, dove il fatto era definito come il frutto di un bugiardo e falso sentimentalismo politico, mentre con queste parole che, per correttezza e obiettività di informazione, riportiamo, il predetto “Giornale dell’Armonia” commentava la resa dei congiurati: «La mitezza e la umanità dei provvedimenti emanati dal real Governo furono eguali alla sollecitudine posta nello assicurare alla giustizia i due latitanti, rendendosi così un grande servigio alla tranquillità delle pacifiche popolazioni e un grande beneficio agli stessi incolpati, i quali, fidenti nella santità delle leggi, troveranno in esse la loro difesa o la loro punizione, come non andranno frustrati in quella intera fiducia che li condusse a far atto di piena sommissione alla suprema podestà che dal trono castiga perdonando».

Comunque, espiata la pena, un provvedimento di polizia impose allo Scarperia il domicilio a Trapani, dove fu preso da focosa passione per una affascinante fanciulla, che poi sposò, figlia dell’Intendente della provincia, Maria Stella Palmigiano, la quale condivise col nostro «le pene e le sofferenze della sua vita irrequieta di patriota, di cospiratore, di combattente…»[8]. Infatti, neppure l’amore per Maria Stella distolse lo Scarperia dai suoi sogni insurrezionali, e così, con l’aiuto di due patrioti trapanesi, il fratello della fidanzata e il prof.

De Lisi, futuro direttore dell’Osservatorio astronomico di Palermo, tentò di fuggire da quella città, in cui era sorvegliato speciale, alla volta di Malta, impadronendosi di una barchetta. Ma anche stavolta il mare agitato sospinse l’imbarcazione, dopo nemmeno un miglio, ad infrangersi su uno scoglio. Raggiunti dalla polizia, i tre fuggiaschi furono arrestati e condannati a qualche mese di carcere. Scontata la pena, lo Scarperia fu costretto a risiedere come confinato in quella città, per essere di nuovo arrestato, nel dicembre 1858, insieme a Mario Palizzolo e Giovanni Ernani, con l’accusa di aver continuato a tramare contro il governo borbonico.

Il nostro rimase in prigione fino all’aprile del 1860, giusto in tempo per arruolarsi come volontario non appena i Mille sbarcarono a Marsala. Grande parte egli ebbe nell’organizzazione dei volontari castelvetranesi; e, in particolare, la squadra da lui comandata si comportò molto valorosamente, e a Palermo si distinse nei combattimenti di porta S. Antonino e della Cattedrale, tanto da meritarsi il compiacimento di Garibaldi, il quale, il 1° ottobre 1860, alla vigilia della resa di Capua, lo nominava capitano sul campo e gli affidava il comando del battaglione dei “Cacciatori delle Alpi”.

Scarperia era poi insignito della medaglia d’argento al valor militare ed entrava, dopo l’annessione, a far parte dell’esercito nazionale col grado di capitano nel III Reggimento di Fanteria.   Vorrei parimenti ricordare un eroe castelvetranese, che ha combattuto, rispetto a Scarperia, sul fronte opposto. Trattasi del soldato Michele Montalto (1841-1866) che, inquadrato nell’esercito duo siciliano, dopo la resa di Capua, non volle venir meno al giuramento a Francesco II e, pertanto, come tanti altri, venne deportato in Piemonte alla fortezza di monte Fenestrelle.

Era questo un sistema di difesa alpina, a protezione della Val Chisone, voluto da Carlo Emanuele di Savoia e i cui lavori, iniziatisi a partire dal 1728, continuarono fino al 1850, impiegando anche più di quattromila persone nei periodi di maggiore attività. Qui, a circa 2000 metri di altezza, furono concentrati i soldati e gli ufficiali renitenti del disciolto esercito borbonico, la maggior parte dei quali vi morì di stenti e di freddo. Le migliaia di deportati che entravano a Fenestrelle, come monito alla loro rieducazione ebbero il “privilegio” di leggere una scritta: “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce” simile a quella che centinaia di migliaia di deportatati, 80 anni dopo, ebbero l’analogo “privilegio” di leggere nel campo di stermino nazista di Auschwitz: “Il lavoro rende liberi”.

Tragiche e terribili analogie e similitudini. Ecco come un giornale dell’epoca descriveva le terribili condizioni in cui versavano gli internati:   La maggior parte dei poveri reclusi sono ignudi, cenciosi, pieni di pidocchi e senza pagliericci. Quel poco di pane nerissimo che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva e, se qualcuno parla, è legato per mani e per piedi per più giorni. Vari infelici sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato dal sangue e molti altri non si trovano più né vivi, né morti.

È una barbarie signori[9].   Di questi migliaia di infelici, colpevoli solo di non aver voluto tradire il giuramento dato,  si è perduto anche il nome, tranne quello di Montalto e di altri due, i quali, non sappiamo per quale motivo, furono sepolti nel cimitero comunale di Fenestrelle -  e non inumati nella calce viva in fosse comuni – dove una piccola lapide ne ricorda l’identità e la provenienza.   Francesco Saverio Calcara [1] Cfr.

G. Asaro, Giuseppe Scarperia patriota e garibaldino, Scuola Linotyp. «B.D.P.», 1964. L’opuscolo è conservato presso la Biblioteca Comunale “L. Centonze” di Castelvetrano ai segni 83.VII.30, n. 14. [2] Narra l’Asaro che nel cimitero di Messina, dopo la morte del Pellegrino, gli fu eretto un monumento, alla cui base fu attorcigliata la pesante catena che egli portava nel bagno penale di Favignana (op. cit., pp. 5-6). [3] Secondo un’altra versione, il Patti fu ucciso, per vendetta, dai parenti di Onofrio Cascio da Salemi, l’uomo che egli aveva assassinato (cfr.

G. Asaro, op. cit., p 7). [4] La nota si trova in una cartella del “Fondo Centonze” presso l’Archivio Storico Comunale “V. Titone” di Castelvetrano. [5] La notazione è contenuta in un foglio a stampa, recante l’intestazione Lista preparatoria di fuoribando, del 31 maggio 1854, a firma dell’Intendente della provincia di Messina, G. Gastrone, trascritto da G. Asaro, op. cit., pp. 17-19. [6] In effetti, il resoconto ufficiale dei fatti, pubblicato sul “Giornale dell’Armonia”  in data 7 luglio 1854, accenna all’arresto dello stesso padre, del fratello, di altri due congiunti e di un amico dell’Interdonato, nonché del sindaco e del capo delle guardie urbane, colpevoli questi ultimi di non avere diligentemente vigilato sulla sicurezza del lido (Cfr.

G. Asaro, op. cit., p. 12). [7] Cfr. G. Asaro, op. cit., p. 20. [8] G. Asaro, op. cit., p. 21. [9] Cfr. I. Coppola, La vera storia del lager di Fenestrelle dove i Savoia scannarono e fecero sparire nella calce migliaia di meridionali!, http://www.inuovivespri.it/2017/03/26/

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