La Compagnia dei Bianchi a Castelvetrano e la disputa della Pasqua 1818

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
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03 Aprile 2019 09:36
La Compagnia dei Bianchi a Castelvetrano e la disputa della Pasqua 1818

Cadeva quel giovedì santo dell’anno di grazia 1818, nel giorno di San Giuseppe, 19 marzo appunto, allora festa di precetto e ricorrenza particolarmente sentita, come in tutta la Sicilia, dal popolo castelvetranese. Pensò bene adunque il rettore della Compagnia dei Bianchi, don Giovanni Bonsignore, di chiedere al pio sacerdote Carlo Mazzara, cappellano dell’Ospedale e dell’annessa rettorìa di Sant’Antonio Abate, di celebrar messa all’altare maggiore di detta chiesa onde venire incontro alle esigenze dei fedeli e degli stessi confrati che volevano soddisfare, con la dovuta pompa, il precetto festivo.

Gli è, però, che la chiesa di Sant’Antonio era sì – come il retrostante oratorio e la contigua chiesa della Madonna della Pietà o del Pensiero – amministrata dai Bianchi, ma era anche considerata filiale rispetto alla parrocchia di San Giovanni, nel cui distretto essa ricadeva. Non a caso, ogni anno, la vigilia della festa del Santo titolare, a conferma del suo diritto di visita, il parroco della patronale chiesa, si recava in forma solenne, prima del vespro, in quella filiale, con lo intervento de’ suoi preti, coll’assistenza del Magistrato e colli nobili Rettore e confrati della Compagnia dei Bianchi[1]. E tuttavia, in quel fatidico giovedì del marzo 1818, si giunse ad un clamoroso scontro tra il rettore dei Bianchi e il parroco di San Giovanni, don Pietro Messina, la cui memoria è consegnata in centinaia di fogli di un carteggio che, casualmente da noi rinvenuto, ci ha consentito di ricostruire una vicenda che, sia pur confinata negli angusti orizzonti della storia locale, è pur sempre emblematica dello spirito dei tempi e che dunque val pena d’esser raccontata.

Ma è giusto, per una piena intelligenza dell’accaduto, procedere con ordine, soffermandosi sulla Compagnia dei Bianchi e sul ruolo che essa ebbe, fino al suo scioglimento, nella vita sociale castelvetranese. Sin dal 1549, don Carlo d’Aragona, nostro primo principe, aveva creato per sollievo di poveri e miserabili persone il Monte di Pietà coll’assignamento che fece detto Ecc.mo Signore con altri dinoti Cittadini di alcune rendite, come leggiamo agli atti di notar Antonio Abitabile al 1° gennaio di quell’anno.

Nello stesso tempo, venne istituita la Compagnia dei Bianchi, formata da cittadini del primo ceto, tanto per la cura dell’infermi, quanto per conforto e assistenza de Miserabili condannati a morte… assegnando all’istessa per oratorio la riferita chiesa di Santo Antonio[2]. La compagnia dei Bianchi teneva l’amministrazione del Monte di pietà e dell’Ospedale, il cui complesso occupava gli odierni fabbricati adiacenti alla chiesa di Sant’Antonio Abate, compresa l’area dell’odierno mercato ittico, dove sorgeva una cappellina dedicata a S.

Rocco, patrono degli appestati. Ricorda il Ferrigno che, nella capitale del Regno, essa era stata istituita dal viceré Gonzaga, con prammatica data a Palermo l’8 Settembre 1541 e che la prima compagnia fu ivi fondata nel 1542. I documenti che esistevano presso l’amministrazione dell’ospedale di Castelvetrano non erano concordi nello stabilire l’epoca della sua fondazione nella nostra città. Nel registro dei discarichi dei giustiziandi dell’anno 1708-1709, l’istituzione dei Bianchi si faceva risalire al 1543; una lettera del 28 dicembre 1807 della Deputazione di Sanità, diretta agli uffiziali della compagnia, rilevava che la sua fondazione sarebbe avvenuta nel 1549.

“Alle pagine 89-92 del I Volume di scrittura della amministrazione – evidenzia ancora il Ferrigno - si dice che  la Compagnia esisteva nel 1567, mentre da diverse carte si rileva che una tale confratria fu riconosciuta con Bolla Pontificia del 12 Gennaio 1547. Ma anche questo è un errore, poiché questa data si riferisce alla fondazione della Confraternita del Santissimo Sacramento; laddove  in un documento ufficiale presentato dalla Compagnia al Magistrato Municipale, nell’anno 1848, si dice che la Compagnia dei Bianchi sotto il titolo del Santissimo Crocifisso fu fondata al 6 Gennaio 1695”[3].

In tanto groviglio di date, risultanti da documenti ufficiali, più veritiero, secondo lo storico castelvetranese, è  un atto del 1° aprile 1782 del notaio Filippo Maria Curti, nel quale sono transuntati i capitoli della compagnia, redatti e votati il 6 dicembre 1620[4]. Nel primo di detti capitoli, concernente la fondazione della compagnia, leggiamo:   Desiderando l’Ill.mo ed Ecc.mo Sig. Don Carlo d’Aragona, principe di questa città di Castelvetrano, che le cose spirituali in essa crescessero e rilucessero, ordinò al P.

Fra Francesco da Scicli, cappuccino che allora in essa predicava la parola di Dio, che persuadesse il popolo per fondarsi la compagnia de’ Bianchi ad imitazione di quella di Palermo per conforto dei condannati a morte per la Giustizia. E di più a cura o governo del Monte della Pietà, Hospedale dei poveri ammalati. Et avendo detto padre ciò proposto più volte, finalmente nel giorno dell’Epifania del 1569 si scrissero molti fratelli bastanti a fare competente corpo della compagnia. E fu da Sua Eccellenza e dalli Reverendi Arciprete e Vicario assignatale per oratorio la chiesa di S.

Antonio, vicina al detto spedale. Ivi convenuti fratelli, nella domenica seguente, s’elessero gli ufficiali e cominciossi a legere il Libro de’ Capitoli dei Bianchi di Palermo[5].   Scopo precipuo della compagnia era di assistere e confortare i giustiziandi nell’intento di guadagnare a Dio le anime dei malfattori e prenderne la cura degli estremi conforti, come leggiamo nella relazione della sacra visita di mons. Ugone Papè, avvenuta nel 1770,  nella quale si conferma la data del 6 gennaio 1569.

La compagnia, nata tanto per la cura degli infermi, quanto per conforto e assistenza dei poveri condannati a morte[6], oltre ad amministrare il Monte di Pietà e lo spedale dei poveri infermi, si prefiggeva scopi di assistenza e beneficenza, mirando ad infondere nei condannati il sentimento della rassegnazione e l’accettazione della dura pena, in vista di una più alta ricompensa, secondo un lugubre rituale di assistenza al reo, minutamente descritto al punto 23 dei capitoli.

Ancora, la confratria dei Bianchi, si faceva garante della pace cittadina, aveva l’obbligo di seppellire i defunti e avviare verso il progresso spirituale i suoi membri. Essendo costituita dai maggiorenti della città[7], la compagnia, intervenendo nelle processioni e nelle cerimonie, aveva e reclamava il primo luogo: et innanti noi non ci passi ne compagnia, ne fratia, ne altro che vi fosse, proclama, con albagia tutta aristocratica, contrastante con le ostentate proteste di umiltà e compunzione, il n° 29 dei predetti capitoli.

Infine, essa aveva diritto ad una particolare sepoltura per i suoi ascritti, come attesta una lapide, ancora oggi murata alla parete esterna della chiesa del cimitero, con la dicitura sepulcrum societatis alborum MDCXXXI. Compito fondamentale dei Bianchi era, come detto, l’assistenza ai condannati a morte. Nella cappella del carcere - dove campeggiava un dipinto perduto del pittore Natale Marchese, eseguito, assieme ad altri cinque soggetti, nel 1619, e pei quali ebbe pagate < 18 - si svolgevano in parte le lugubri cerimonie che preparavano il condannato a morte all’esecuzione.

Ivi si recavano in processione i confrati della compagnia dei Bianchi, procedendo dalla chiesa di S. Antonio Abate, dove aveva sede il loro oratorio, vestiti di un candido sacco e visiera, salmodiando le litanie della Beata Vergine. Nella stanza del carceriere, il capitano di giustizia  consegnava al governatore della compagnia il reo affinché potesse ricevere tutti quegli atti di carità e di assistenza dovuti dalla nobile confraternita a tenore dei suoi statuti. I capitoli prevedevano che ogni confrate dovesse consolare e assistere il povero afflitto, curandone la conversione, senza poter ricusare il proprio ufficio col pretesto di mancar di coraggio in vista dell’esecuzione e dell’eventuale taglio di una o di entrambe le mani, come a volte le sentenze imponevano.

Dalla cappella del carcere, dopo il canto del Veni Creator Spiritus, il condannato veniva portato alla chiesa di S. Antonio, dove nell’arco di tre giorni, gli si offrivano i conforti sacramentali e lo si preparava a sopportare cristianamente il supplizio. Terminato il triduo, ai soliti rintocchi di campana, tutti i confrati, sul far del mattino, cantando le litanie dei Santi, si riportavano alla Vicaria, nella cui cappella si celebrava la messa e si amministrava l’Eucaristia al condannato.

Indi, la compagnia, dopo aver fatta l’adorazione al Sacramento, esposto nella chiesa di N. S. degli Agonizzanti in cui si era officiato un ulteriore triduo per l’anima del miserando, faceva ritorno al suo oratorio. Nel pomeriggio dello stesso giorno, dopo un’ultima esortazione, la compagnia riconsegnava nelle mani del capitano il prigioniero che, legato con robuste funi, era condotto al capestro, accompagnato dai confrati salmodianti. Il luogo delle esecuzioni era alle cosiddette Forche, nei pressi dell’attuale macello, ovvero, per una sorta di contrappasso, nello stesso luogo dove il delitto era stato commesso.

Il reo veniva accompagnato sul patibolo dal capo di cappella secolare della compagnia, mentre la condanna era eseguita da due boia, detti il soprano e il sottano. La testa, e a volte anche le mani, dei condannati venivano appese, collocate ad terrorem in apposite gabbie di ferro, alle grate delle carceri, come accadde, ad esempio, per maestro Francesco Cirulla, giustiziato nel giugno 1710. Succedeva anche che il corpo fosse squartato, come avvenne per un tal Giuseppe Buono da Campobello che, giustiziato a 9 marzo 1709, fu smembrato in quattro parti, due appese alla porta di S.

Francesco di Paola fuori e dietro il muro della chiesa di N. S. della Vittoria, e altre due sospese fuori la porta di S. Francesco d’Assisi; la testa, posta nella solita gabbia, fu esposta alle mura del carcere; le interiora furono interrate nella fossa solita delli giustiziati nella chiesa di S. Leonardo[8]. Assieme al Monte di Pietà, anche l’Ospedale, realizzato, come s’è detto, nel ‘500 da Giovan Vincenzo Tagliavia e, successivamente, riorganizzato dal grande Carlo d’Aragona, era ammi-nistrato, dalla Compagnia dei Bianchi, che ne gestiva le rendite provenienti sia dalle assegnazioni del principe (z.

6 annue) sia dalle commendabili eredità, tra le quali il Noto ricorda il legato novennale di 400 onze di un tal Marraccia e quello triennale di 600 onze del nobile Francesco Stelloni[9]. L’Ospedale era poi tra i soggiogatari dell’Università che, nel 1785, pagava al tesoriere don Vincenzo Vajasuso z. 12.16.15 per i decorsi dell’anno 1781-82 (I.2, f. 4, p. 57). Il canonico Noto, al f. 229 della sua Platea, e don Giovanni Battista Ponte, in una relazione indirizzata, nel 1775, al vescovo Ugone Papè, in corso di sua sacra visita[10], affermano come l’Ospedale, che comprendeva anche un ricovero pei pellegrini, fosse stato trasferito, tra il 1526 e il 1539[11], dall’antico sito vicino al Monastero, nei locali di una chiesa attigua a quella di S.

Antonio. Il titolo di detta chiesa era di S. Maria della Pietà; di essa il Ponte ricorda all’altare l’immagini del S.mo Crocifisso, della sua Madre... e di S. Gio. Evangelista, pitti al Muro molto antichissimi..., talchè la chiesa era anche detta di Nostra Signora del Pensiero[12]. Sui motivi di tale trasferimento si possono formulare varie ipotesi: l’incrementarsi del vicino Monastero, che poteva incontrare ostacoli dalla presenza di quella struttura, considerata oltretutto disdicevole, attesa la funzione di ospizio a cui, ai tempi, l’Ospedale pure assolveva; la migliore posizione logistica del nuovo sito, posto all’incrocio di due importanti vie, una che dalla marina di Polluce, o Scaro di Bruca, portava a Castellamare e a Palermo, l’altra che da Mazara conduceva a Misilindino (oggi, S.

Margherita di Belìce); la volontà egemonica di casa Tagliavia che, con tale trasferimento, sottrae l’Opera al controllo della Confraternita di S. Gandolfo, ponendola direttamente sotto la  propria giurisdizione[13]. L’Ospedale, come leggiamo nella detta relazione del Ponte, era costituito da un reparto maschile co’ letti ai due lati… al numero di sei fissi con baldacchine di ferro, littere di legno, lenzuola o copertura, e guanciale, oltre altri letti portatili; e da un reparto per le donne inferme, con suoi letti e con una Scaffanara al lato sinistro per conservarisi le Robbe ed altri utensili di detto Ospedale.

La situazione appare certamente migliorata rispetto alle condizioni del primo Seicento, almeno così come esse appaiono da un inventario delle Robbe dell’Hosp.le di Castelv.no ritrovate in potere di M.ro Filippo, consegnate a D. Pietro Manuali novo Hosp.re, a 30 agosto XI Ind. 1617 e che integralmente riportiamo[14]:

  • Materassi pieni di lana, novi, mediocri e vecchi n° 8 grandi, e sette piccoli, in tutto n° 15
  • Un Cortinaggio di tela di decina usato con Intrataglio e frinze sopra celo e cinque falde, e tornialetto
  • Ventiquattro falde di cortinaggi di tela diversi con cinque sopra celi
  • Un cortinaggio di tila fra cinque falde, senza celo con frinze col suo tornialetto, intruppati di gruppo largo e frinze
  • Un altro cortinaggio… intruppato con frinze in cinque falde e sopracelo
  • Un Paviglione di tela sottile con suo cappello con gruppi e frinze
  • Tredici para…..
  • Tre falde di lenzoli usati e vecchi
  • Due frazzate bianche usate
  • Una frazzata rossa vecchia
  • Un’altra frazzata bianca pure vecchia
  • Un’altra frazzata bianca assai vecchia
  • Una cutra di tela di due falde sottile piana….
  • Una cutra di tre falde tessuta in tilaro
  • Un’altra tessuta in telaro di due falde
  •  Un’altra cutra du due falde tessuta in telaro
  • Un tornialetto di scotto azzolo
  • Una pignata di metallo di capacità di una langello in cuoia (?)
  • Un mortarello di metallo con lo manico
  • Tre cucchiarelle di stagno, ed una rotta
  • Una sottocoppa di Faenza e un piatto…
  • Un mortaro di marmura rotta
  • Una seringa di ramo granni
  • Una cassetta nova di fago co li piedi
  • Una cassa di carico di abbeto
  • Una cassa vecchia senza coverchio
  • Una sbriga [asse per gramolare la pasta] con lo sbrigane
  • Una… di stagno
  • Due trispi di tavola
  • Una scaletta di sei scaloni
  • Due seggitelli di corda
  • Tre tavole bone e mezza di letto
  • Undeci tavole nove con tre trabacche [testiera]
  • Cinque tavole di mezza mina di letto
  • Dudeci colonne di trabacche
  • Quattro pari di trispi vecchi
  • Un tavoleretto vecchio
  • Quattro bosciole di legno a lo torno per il Sepolcro
  • Una scala di Sepolcro
  • Un cataletto di morti
  • Una gelosia con coperta
  • Un leleggijetto d’altare
  • Una fermaturetta moresca
  • Una seggia di corio a la spagnola
  Agli ammalati accudiva una spedaliera, che abitava in locali attigui, forniti di cucina e cisterna, mentre l’assistenza sanitaria era assicurata da un medico fisico e da un chirurgo. Il rettore era nominato ogni anno dal principe, eligendosi sempre persone qualificate, e spesso veniva riconfermato.

La Compagnia dei Bianchi e il rettore sceglievano poi due consiglieri, e questi, a loro volta, eleggevano il tesoriere. Il principe nominava direttamente il cappellano, i medici, il notaio, il segretario, l’archivista, lo scritturale, la spedaliera, gli inservienti, il barbiere (con funzioni, come si sa, anche di cerusico), e la lavandaia. Da una rappresentanza, indirizzata, a’ 8 febbraio 1796, dal rettore pro-tempore, don Domenico de Blasi, al procuratore generale del duca di Terranova, don Antonio Forcello, apprendiamo che, fino a quel momento, il salario del cappellano era di z.

8, e quello della spedaliera di z. 6 annuali; compenso che detto procuratore, con nota del 26 successivo, autorizza ad aumentare rispettivamente ad z. 30 e ad z. 10. Dal detto documento veniamo a sapere altresì che i collettori, incaricati di esigere tutte le partite anche minute a conto dell’amministrazione, percepivano un agio di tt. 1.5 per ogni onza incassata; percentuale che il prefato rettore propone di aumentare a tt.

1.10[15].  Tali dati sembrano confermare la positiva congiuntura che interessava, nell’ultima parte del secolo, la nostra città, con ripercussioni positive anche sull’amministrazione ospedaliera. Ricordiamo come, ancora negli anni 40, sempre più si era obbligati ad attingere alle riserve di cassa, come, ad esempio, nel 1743, allorché il rettore della Compagnia dei Bianchi fu costretto a chiedere al vescovo di Mazara l’autorizzazione a prelevare z. 20 dalla cassa dei capitoli, onde soccorrere i bisognosi, vista la mancanza degli annuali introiti.

Nel 1796, il rettore pro tempore ottenne dal vescovo Orazio La Torre il permesso di destinare i benefici per messe da celebrarsi negli altari della contigua chiesa dell’Ospedale, sotto il titolo di N. S. del Pensiero, all’elemosina per la messa quotidiana dell’altare maggiore di Sant’Antonio Abate, dove si custodiva il Perpetuo. A cagione di una messa, appunto, scoppiò, nel 1818, l’aspra contesa tra il rettore della Compagnia dei Bianchi, D. Giovanni Bonsignore e il parroco di San Giovanni, don Pietro Messina, e col vescovo di Mazara, mons.

Emanuele Custo. Infatti, onde salvaguardare i diritti della Compagnia nella gestione della chiesa di S. Antonio Abate, aggregata a quella dell’Ospedale e alla loro gancia, manifestò l’intenzione di voler solennizzare la ricorrenza di San Giuseppe – che, come detto all’inizio, quell’anno cadeva in coincidenza col giovedì santo – all’altare maggiore della chiesa di S. Antonio, senza chiedere licenza al parroco Messina, il quale pretendeva che le celebrazioni si svolgessero nel retrostante oratorio.

Munitosi il parroco di un “ordine proibitivo” della curia vescovile, il rettore di rimando con passi violenti fè serrare quella Chiesa Sagramentale [Sant’Antonio], con sorpresa e raccapriccio de’ buoni, che per la voce precorsa attendevano in un giorno così Sagro la publica funzione, come dice mons. Custo in un esposto inviato da Partanna, in corso di sagra visita, a’ 19 giugno 1818, al luogotenente generale del Regno. Dieci giorni dopo il riferito incidente, il 29 marzo 1818, il rettore Giovanni Bonsignore, faceva notificare al parroco Messina e al cappellano Mazzara, pel tramite di notar Geronimo Curti, la decisione presa dalla Compagnia di non potersi più fare carico del culto divino per le urgenze e bisogni in cui trovasi per lo mantenimento dell’Ospedale e il sostegno delle liti…[16]. Era una chiara ripicca contro il parroco Pietro Messina, il quale significativamente acclude agli atti della disputa il predetto permesso vescovile del 1796, a voler dimostrare che la Compagnia disponeva invero dei cespiti onde far fronte al culto divino nella chiesa di S.

Antonio Abate, introiti chiaramente indicati nella bolla vescovile, provenienti da lasciti e testamenti di benefattori. Le ostilità non si fermarono lì, giacché, come leggiamo nella “rappresentanza” di mons. Custo, il detto rettore progresse ad un altro passo più clamoroso e violento del primo, di cui era rimasto impunito, ordinando di chiudere l’uscio della chiesa il giorno della processione dell’ottava del Corpus Domini, cosicché il Santissimo non poté essere condotto all’interno del tempio per la consueta benedizione del popolo, come avveniva sin dal 1695.

E dunque, il vescovo, animato da zelo pastorale onde vendicare i gravi insulti recati alla Divinità, si fa carico di segnalare al governo il comportamento del Bonsignore affinchè si degni di… iscegliere col robusto suo braccio quelle provvidenze, che vagliano a punirlo con pene afflittive, bastevoli ad ingerire nell’animo de’ fedeli un orrore a commettere simili eccessi, ed altresì per conoscere i popoli lo zelo de’ Sovrani in voler venerata la Divinità. Il luogotenente girò la “Pastorale rappresentanza” di mons.

Emanuele Custo all’avvocato fiscale della Gran Corte il quale, a’ 20 agosto, trasmise il fascicolo alla Corte Capitanale di Castelvetrano onde avere ragguagli positivi sull’accaduto. Con nota del 30 agosto, don Vincenzo Valenti, capitano supplente, riferendosi anche a un memoriale del Bonsignore del pregresso 11 maggio, argomentava però in favore delle ragioni del parroco e del vescovo, giudicava irregolare il comportamento del rettore, rimettendosi alle disposizioni che il governo avrebbe volto adottare.

E tuttavia, l’anno successivo, in occasione della stessa processione dell’ottava del Corpus Domini, il nuovo rettore, don Giuseppe di Blasi, barone della Salina, assumeva lo stesso atteggiamento del suo predecessore, suscitando ancora le proteste del parroco di San Giovanni, il quale, oltre alla chiusura della porta della chiesa, lamentò il fatto che i confrati non si fossero fatti trovare nella tenuta prescritta, con le torce in mano, ma fossero intervenuti alla processione come privati fedeli.

Significativa è la risposta data dal Salina, pel tramite di notar Curti che, il 29 giugno 1819, gli notifica la protesta del Messina: Vero è che il Parroco ha il diritto di esercitare talune funzioni Parochiali nella Ven.le Sagramentale Cha di S. Antonio Abbate, di spettanza di questo Spedale… nascenti da una convenzione che il Parroco vuol chiamare transazione stipolata nel 1695, ma bisogna provare che nella parola – Talune funzioni Parochiali – sia compresa quella di cui si duole di esservi stato impedito l’esercizio… giacché ne la cennata convenzione hà dato mai questo diritto, ne la costumanza hà potuto formare ancora una prescrizione voluta dalla Legge.

E difatti - argomenta ancora il rettore – il governo, chiamato in causa dal parroco e dal vescovo, si era astenuto da qualunque risoluzione in proposito. La questione sarebbe andata avanti chissà per quanto tempo ancora se, di lì a poco, la Compagnia dei Bianchi non fosse stata sciolta e le sue competenze assunte da altri enti[17].   Francesco Saverio Calcara Aurelio Giardina [1] G.

B. Noto, Platea della Palmosa città di Castelvetrano, suo Stato, Giurisdizione, Baronie e Contea del Borgetto aggregati, mns 1732, Biblioteca Comunale “L. Centonze” Castelvetrano, f. 177. [2] Archivio Notai Defunti (d’ora in poi AND), Capitoli della Compagnia dei Bianchi approvati dal vescovo Giovanni Lozano il 20 Decembre 1660, transunti in notar Filippo Curti, Atti, 1781-82, ad diem 1 aprile 1782. [3] Cfr.

G. B. Ferrigno, Castelvetrano, in F. Nicotra (a cura di), Dizionario Illustrato dei Comuni Siciliani, vol. II, Società Editrice Dizionario Illustrato dei Comuni Siciliani, Palermo 1909, rist. anast. Rago, Castelvetrano 1990, p. 536. [4] I capitoli sono integralmente riportati in A. Tilotta, F. S. Calcara (ed.), Castelvetrano capitale degli Aragona Tagliavia. Politica, cultura e società in un comune feudale siciliano del XVI secolo, Mazzotta, Castelvetrano 2006., pp.

221-243. [5] AND, notar Filippo  M. Curti, Atti, 1781-82, ad diem 1 aprile. [6] Archivio Storico Diocesano (d’ora in poi ASD), Visita di Monsignor Papè della città di Castelvetrano e Campobello, 35-1-4. [7] Interessante, al tempo di don Diego, discendente di Carlo, l’elenco di nobili esponenti della Compagnia, anche non castelvetranesi, riportato dal Ferrigno alla pag.

536 della sua monografia. Oltre al principe, si ricordano il genero Ettore Pignatelli, i suoi fratelli Giulio e Girolamo, Girolamo d’Aragona fratello di Diego, Fabrizio Andrea Aragona e Pignatelli figlio di Ettore e nipote di Diego, Francesco Perollo barone della Salina, Giuseppe Pandolfo barone di Altavilla, Rutilio Scirotta principe di Montevago, e altri. Ulteriore conferma, questa, delle capacità attrattive che la Castelvetrano del tempo esercitava. [8] Cfr.

Libro di cancelleria del Santo Monte di Pietà e Compagnia dei Bianchi di Castelvetrano, 1620, f. 168; ASC, Atti, 1709-10, mandato a’ 15 giugno 1710, in G. B. Ferrigno, La vicaria nuova di Castelvetrano nella storia e nell’arte (a cura di R. Di Bella), Mazzotta, Castelvetrano 1991, pp. 60-61. [9] G. B. Noto, Platea, cit., ff. 230, 336. ; cfr. pure F.S. Calcara, La rota dei projetti a Castelvetrano nel 1700, Mazzotta, Castelvetrano 1994, p.

42 ss. [10] Cfr. ASD, Relazione del S.to Monte di Pietà Sagro Ospedale, e Ven.le Compagnia de’ Bianchi di questa Città di Castelv.no colla nota de’ Giugali e nome di Debitori annuali co’ loro decorsi a’ tutto l’anno 7^ ind. 1774 che si presenta da Dr Gio. Battista Ponte…, Visite Pastorali, 35.1.4, ff. 514-515v [11] Le date si evincono, rispettivamente, da un atto di notar Carlo La Gatta a’ 2 dicembre 1526, che riferisce dell’Ospedale, ancora in costruzione, vicino la chiesa di S.

Gandolfo; e dal testamento di Giovan Vincenzo Tagliavia che, nel 1539, attesta l’Ospedale già nei locali attigui alla chiesa di S. Antonio Abate. [12] Questo singolare titolo mariano sembra vada messo in connessione coi “pensieri”, cioè coi dolori della Vergine Maria di fronte alla Passione di Cristo, preconizzata a lei da Simeone. È come se la Madonna, ai piedi della croce, facesse trasparire, dal suo viso, assorto nel dolore, l’intimo travaglio che l’afflisse per tutta l’esistenza meditata sul mistero del Figlio.

Ritroviamo, nella tradizione popolare siciliana, ripresa nei testi poetici di Petru Fudduni (XVII sec.), il motivo dei “pensieri” tormentosi della Vergine: le più delicate e appaganti esperienze di tenerezza materna, come l’allattamento, i baci e gli abbracci, sono radicalmente mutati dal dolore, transignificati dal progetto per la morte in cui si trovano situati. L’allattamento fa pensare la madre alla differenti bivanda che il Figlio avrebbe ricevuto sulla croce, i baci al baciu di Giuda, gli abbracci alle duri cordi con cui sarebbe stato legato; le basta guardare le manine e i piedini del suo bambino per scoppiare a piangere al solo pensiero che alla fine essi ‘nchiuvati saranno… Cfr.

F. Conigliaro, La figura di Cristo nei testi poetici di Petru Fudduni (sec. XVII), in G. Savoca, G. Ruggieri (a cura di), Il Cristo siciliano, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo 2000, pp. 35-36. [13] Cfr. M. Venezia, L’Ospedale di Castelvetrano. 500 anni tra storia e storie, in F. S. Calcara, F. Costa, A. Giardina, L. Leggio, M. Venezia, Il vecchio Ospedale di Castelvetrano, L’Epos, Palermo 2005, pp. 58-59. [14] AND, Atti di notar F.

Lombardo (?), Minute, 1617-18, ad diem 30 agosto. [15] Archivio Parrocchiale San Giovanni - Castelvetrano, Scritture del S. Monte di Pietà, mazzo XIII, ff. 376-377. [16] Il carteggio ci è pervenuto in copia da documenti custoditi nella chiesa di S. Antonio Abate. [17] Abbiamo ricostruito la vicenda attingendo a copia di un incartamento proveniente dalla detta chiesa di Sant’Antonio Abate.

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