Madre che resta è l’ultima silloge di Patrizia Baglione. Già il titolo cattura la mia attenzione e mi perfora la pancia. Ma aspetto di leggere i versi divorandoli per tentare di dare parola all’universo che vi è dentro. Li leggo. Una intera notte e poi la mattina seguente. Caldo torrido fuori la mia villetta al mare ma i versi di Patrizia sono urgenti, così mi arrivano. Come le doglie di un parto che per quanto puoi programmarlo può invertire il piano e irrompere irruente nel tuo oggi.
La natura fa sempre il suo corso. È urgente, imprevedibile, irruente, temeraria, refrattaria agli schemi e agli ordini dell’uomo, esattamente come la Poesia. Sì, caldo torrido fuori ma appena leggo i versi di Patrizia mi ritrovo con i brividi addosso, sulla pelle e dentro l’anima. Prendo il pc e inizio a scrivere. Ad una prima lettura, la silloge può sembrare un dialogo mancato e divelto tra un bimbo mai nato e una madre che tale resta pur se non ha messo al mondo questo figlio. Il dialogo allora può apparire un monologo di una madre che ripete “ossessivamente” quell’atto mancato: quello del generare, dare alla luce un bimbo, il proprio, di cui restano tracce indelebili ovunque.
Ma in verità il libro non è un dialogo, non è un monologo, non è un piccolo diario luttuoso, non è un trattato pur consapevole e ben orchestrato su un aborto. Non è tutto questo. Non è neanche una confessione autobiografica, pur nel suo affrontare un tema personale ed universale come l’interruzione di una gravidanza. Leggendo le pagine mi imbatto in un verso che poi ho scelto come titolo della mia nota di lettura: “solco e parola è tutto ciò che siamo.” Ecco il libro è questo.
Si consegna al lettore nudo, spoglio di pietismi, di orpelli, di retorica del lutto, di introspezione psicologica che pur vi è tra le righe a nutrire il pensiero e l’agito della poetessa. Ma il libro non è un manuale per superare il dolore e il lutto di alcuna perdita possa accadere nella nostra vita di esseri umani. Il libro è solco profondo, coltello che incide in maniera chirurgica le fibre, i muscoli, i nervi. Incide l’utero e scava per arrivare lì dove soltanto la parola poetica può.
La dimensione da cui porsi non è quella da cui io scrivo e voi leggete. Perché i poeti partoriscono la sete come la più bella delle fatiche. Il libro dunque è solco, è parola poetica che ricrea, riplasma, rifonda ed è sete come bisogno d’anima. Il corpo trasmuta nei versi di Patrizia e i tratti fisici possiedono tratti minerali, naturali, vegetali, floreali. È il cosmo dell’utero che contiene galassie, fiori, edera, gerani, piume, rami, uccelli, spighe, pioggia.
Insomma l’intera creazione trova corpo nel grembo ferito, tranciato, aperto, divelto di Patrizia. In quel corpo nudo che traccia orme rosse e indossa il candore del bianco. Ecco i due colori della silloge. Il rosso e il bianco. Il rosso del sangue che nutre, che alimenta ma che è traccia anche di violenza, di ferita aperta, di onta imperdonabile. Il bianco del candore, dell’assenza, del foglio di carta da scrivere, della vita ancora da venire. Il bianco dell’innocenza di un bimbo che resta, di una madre che canta una frattura con la potenza di versi che sanno imporsi su tutto.
È il bianco anche del marmo, del sale, del latte, della luce di una dimensione altra. E sul sale come elemento molto presente nel testo mi sono interrogata. Il sale era considerato dagli antichi greci un simbolo d’incarnazione e di perpetuità per il suo potere purificatore. Ma il sale è anche elemento che permette la conservazione contro la putrefazione, è un elemento che custodisce e impedisce che gli alimenti marciscano. È un simbolo potentissimo anche nelle tradizioni popolari. Ha valore non solo purificatore ma apotropaico.
Allontana il male, purifica, conserva, custodisce. Ma in molti miti e racconti biblici, come nella Genesi accade alla moglie di Lot, si è puniti con la trasformazione in pietra di sale per disobbedienza ad un ordine che giunge dall’Alto, per aver contraddetto un imperativo assoluto, un dovere etico, insomma per aver sovvertito la legge. Anche Euridice si trasforma in sale allo sguardo incauto e sovversivo di Orfeo. Insomma la disobbedienza, la sovversione di una legge o divina o umana si paga. L’amore sprecato si paga.
Quello mancato resta a chiedere parola per essere narrato, vissuto, attraversato, accolto, compreso, forse perdonato. Nel testo di Patrizia, il suo bambino è di sale e la tigre impazzita annidata nell’utero deve pagare il fio. Quella tigre che ha azzannato, straziato il grembo deve espiare la colpa. Per ricomporre le parti ed essere intera, non divisa a metà, non fratturata dentro, non scissa, forse alla poetessa occorrerà nascere nuovamente donna per partire ancora.
Nascere attraverso un percorso che a ritroso può compiere solamente la poesia. Solo la poesia può scendere nei meandri, scomporre, sezionare, ricomporre. Solo la parola può, perché è Verbo. Viene prima delle leggi orali e scritte. È verbo che crea. È potere sommo. Quando ancora era tutto caos, in principio era il verbo. Così leggiamo nella Bibbia. Il verbo poetico dà forma all’informe, dà volto e lineamenti umani a ciò che resta defraudato di pupille, di mani, di braccia, di lingua, di ossa.
Leggendo il libro, il bimbo si ricompone, arto dopo arto, capello dopo capello, vagito dopo vagito, pelle, ossa, sangue e cellule, tutto si ricompone. Il bimbo può nascere tra le braccia dei lettori. La poesia ha ricreato un bimbo divelto, un corpicino mai nato, un feto in un essere che è vivo. Per questo miracolo laico, Patrizia può restare madre. Non è priva di figlio e il figlio non è orfano di madre. I due si toccano in una prossimità e affinità che solo la parola può tessere, intessere, costruire.
È una prossimità semantica: il bimbo diventa figlio, la madre diventa mamma. È una prossimità di lineamenti: l’aspetto del viso tuo che pure mi sopravvive. È vero, Patrizia stava per trasformarsi in madre, su un piano biologico, naturale. Su quel piano c’ eravamo quasi. Ma non siamo solo carne, solo ossa, solo cellule, solo neuroni. Per cui ecco che madre è restata: fatta col vetro in abito di carta.
È la poetessa, non vi sono dubbi. Quell’abito di carta è fatto di pagine dritte e di pagine alla rovescia. Quell’abito di carta è fatto di parole, tutte quelle del mondo che sanno di miele e di radici, che possono sanguinare il dolore e cercare sagome precise che occorrono a indicare le ferite, a nominare il male per toccarlo e guarirlo. Solo la Poesia è risarcimento, è restitutio. Soltanto alla fine della silloge, Patrizia scalza può abitare l’altro mondo. L’altra dimensione da cui è e resta madre.
Perché l’amore non ha bisogno di essere partorito ma generato. Vi sono madri biologiche che hanno partorito ma mai generato. Vi sono madri che hanno generato senza l’atto del parto. È soltanto al di là del visibile, ovvero in un Altrove che nulla ha a che fare con questa castrante e pregiudizievole realtà che può compiersi questo ribaltamento di prospettive e verità. Patrizia e tutti noi lettori a conclusione di questo viaggio nella caverna dei tempi, in cui abbiamo attraversato glaciazioni, galassie, stati minerali, fossili, miti, alchimie, eternità, precarietà, creazioni, distruzioni, colpe, pene, assoluzioni, tutto in un solo utero che si è dilatato fino ad essere universo, alla fine possiamo inchinarci davanti quel bimbo mai nato che è stato partorito dai versi.
Ecco la chiusa che voglio regalare al lettore: due esseri invisibili in una smisurata dimensione. Ecco la madre e il figlio che restano impinti in un sempre che non cade nel Krònos. Ecco l’amore cosa è. Un solo corpo che sa restare in silenzio dentro la lingua di madre.
Bia Cusumano