Appunti e storie Castelvetranesi : Ritorno a Selinunte

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
22 Luglio 2018 09:25
Appunti e storie Castelvetranesi : Ritorno a Selinunte

Soffia l’alito di profonda estate sui fianchi dell’Acropoli, incrostati dai granelli di sabbia, scoppia arsa calura sulle sponde dello smunto Selino, mentre il mare che solo da noi, come dice Sciascia, ha il colore del vino, accavalla alla foce esausta onde frastagliate e dondola  un grosso ramo levigato, relitto, forse, del piovoso e lontano inverno; tra le vigne basse e cariche o tra le verdeggianti distese di olivi; sui folti canneti di Manicalunga che tagliano l'orizzonte delle orride case di Triscina; sulle acque del porto sepolto e i sassi muti della città morta, dove una volta, prima delle dune, si andava col mangiadischi a tentar di rubare una fugace carezza, un timido bacio, un primo brivido d’amore; sul cemento che ha sconvolto luoghi e miti, sulle prore delle ultime barche luccicanti di amari colori; sul cangiante slargo che schiude l'Isola al mondo, già limite alle passioni e alle certezze.

L’estate matura nella magia infinita dei suoi ritorni, che si ripetono sempre uguali sul leggìo di un tempo che passa indicibile tra spire di affanni e solitarie pause di orgogli addormentati nel rombo di un motore eccessivo. Ecco, ti raccontano i monti Sicani, verso Sciacca e Caltabellotta, nelle cime di alberi spelacchiati e violati dalla mano dell'uomo che può, coi suoi parchi eolici (ah, orrenda ipocrisia delle parole!) non solo sconvolgere la memoria ma distruggere così la terra, madre mirabile, che ancora ripete sempre puntuale il cambiare del tempo, gli azzurri del mare.

Come il brumoso inverno è segnale di profonda tristezza e la bella primavera avanza speranze sopite, l’estate è illusoria magia, momento di solitaria confessione di intime sensazioni, privata pausa dall'andare errante nel ditirambo del tempo.

Cammino tra sacche di viaggi, raccolte controvoglia, e mi accorgo di aver smarrito la via, perché più non ritrovo i riferimenti consueti, ormai segnali dell'essere e dell'apparire, ombre di un passaggio forse necessario, come il genitore sepolto sotto la spessa coltre di antico marmo bianco, ormai splendente nella preghiera della sera, o l'incauto amato confidente cui delegavo i pensieri della notte, ormai perduto nella follia di una incomprensibile e sfibrante estate

Figlio del caos, sento sulla pelle il peso dei secoli, le razze e le stirpi che hanno mescolato il loro sangue al mio, la sensibilità che vi hanno inculcato punici e greci, romani e bizantini, saraceni e normanni, francesi e aragonesi, spagnoli e piemontesi. Ma vivo il mio tempo e porto la mia testimonianza.

Come reduce, mi siedo, alla Bruca, nei recinti di locali che anche nel nome stravolgono la storia e mi beo alla  tavolozza dei colori di Nettuno, equoreo sito di favole e di incantesimi, di magia e di perdizione, di contrasti sempre più evidenti tra l'uomo e il mare ormai assopito alle spire della modernità.

Mescolati ai turisti veri, indovino, a volte, facce dimenticate che mi riportano indietro, negli anni. Compagni di scuola, ragazzi con cui giocavo o, magari, litigavo; andati via, come tanti, si volgono qua e là, quasi confusi, con malcelata nostalgia, νόστος άλγος, dolore del ritorno, appunto.

Ne ho incontrato uno, ieri sera, e nelle sue rughe ho indovinato le mie e ho pensato al tempo, implacabile, che incalza. Una stretta un po’ forzata, le solite domande di circostanza e poi il guardarsi imbarazzato di chi ha poco o forse troppo da dire.

Viaggia la mente, naviga l’immaginazione sugli oceani delricordo. Soffia la brezza serale dal molo di ponente, portando l’eco di estati remote, presenze silenziose che un gesto, una musica, un sapore, un nome vorrebbero, ma invano, portare di nuovo in vita.

Una folla muta che esiste soltanto nel ricordo e alla quale vorrei raccontare storie del domani, dividere con loro preoccupazioni che più non interessano quei fantasmi diafani ed evanescenti.

Quando perduti amici mi abbracciano, sento il peso di chi vive un esilio dorato, voluto certo, ma pur sempre lontananza, e provo rincrescimento e pena nel dover consegnare loro una città lacerata, ferita e sanguinante.

Sodali che siete partiti, non cercate per gratificazione, non portate tristezza, avete lasciato a chi restava il compito di conservare i luoghi della nostra memoria. A volte tornate però, e vi sentite spaesati. Ricorrete all'immaginazione, lo vedo; e così tentate di fermare il tempo sul cortile, sulla piazza, sulle vie che forse ormai già non esistono più. Fissate la vostra mente sulle ombre che sempre più numerose affollano i dintorni della reminiscenza. Poi provate a darvi un contegno e vi atteggiate nel vostro italiano “continentale” che non è riuscito però a smussare del tutto certi rafforzamenti palatali o la pronuncia retroflessiva della erre, e fate finta di avere dimenticato la lingua che parlavamo da piccoli, sfidando maestri ottusi e madri un po’ snob.

Oggi vi sentite traditi nelle case che non esistono più, nelle strade cancellate, nei giardini abbandonati, nelle cartacce rutilanti sotto l’implacabile scirocco, nella munnizza “abbancata” dovunque, nelle piazze oltraggiate dall'ignoranza e dalla prepotenza, nei politici che promettevano il futuro e ci hanno riportato indietro di decenni, nei pregiudizi che ci dipingono come collusi o, quanto meno, come bruti da educare, nella gente che è scomparsa, nella memoria di campi che nessuno vuole coltivare, di imprese per cui nessuno vuole rischiare...

Qui tutto è confusione, soltanto da lontano vive questa terra, e solo nelle vicende della mente rivive nei valori che forse si sono persi. Mi tornano in mente gli struggenti versi di Quasimodo in Vento a Tindari e mentalmente li ripeto:

… Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza,

tacito passo al buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere…

Poi anch’io, come il Poeta, mi ridesto e continuo la commedia dell'estate, nella cordialità convenzionale di ogni giorno, mentre sfila le ore il caleidoscopio della dolce stagione, sopita ormai alla memoria, e ancora non ci dice, il tempo, chi siamo e dove andiamo. Francesco Saverio Calcara

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