“Gente di Castelvetrano & C” : raccontiamo Giacomo Bonagiuso
Definire Giacomo Bonagiuso semplicemente "direttore teatrale" è alquanto riduttivo, perchè è uno di quei personaggi che potremmo definire "multitasking". Personaggio che sa affascinare qualsiasi interlocutore e che non le manda a dire.Diverse le pubblicazioni nonchè saggi apparsi sulle più importanti Riviste di Filosofia del panorama editoriale accademico italiano. Tra le sue pubblicazioni principali possiamo citare "Nòstoi, gli eterni ritorni"(Palermo, 1993); "Il Mago della Pioggia" (Castelvetrano 1998); "Non credo più" (Alcamo 1997); "Sum.
Cogito. Ergo? Frammenti di fine secolo" (Palermo 2000); "Forme cave del non. La fabbrica del teatro e il paradosso del cinema" (Palermo 2009); "La soglia e l’esilio. Asimmetrie di tempo e spazio nel Nuovo Pensiero ebraico" (Roma 2009); "L’eccezione dell’aurora" (Castelvetrano 2016).
Tra le principali opere curate non possiamo esimerci dal ricordare: "G. B. Ferrigno. La peste a Castelvetrano negli anni 1624-26"(riedizione a cura del Kiwanis International, 1998); "Le mal de Dieu. Cinema e mistica: Bresson, Dreyer e dintorni" (Gibellina, 2000); "Il volto dell’altro: Itinerari tra alterità e scrittura" (Palermo 2001); "Autori e pagine di Sicilia" (Catania, 2001); "Franz Rosenzweig e il Nuovo Pensiero", per la Rivista "Idee" del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Lecce (2003); "Apeiron", l’annuario scientifico del Lyceum G.P.
Ballatore di Mazara del Vallo (edizioni 2001,2002, 2004). Tante opere, tanta filosofia, tanto teatro. Chi è Giacomo Bonagiuso? Nasce a Mazara del Vallo nel giugno del 1972. Dopo gli studi classici al “G. Pantaleo” di Castelvetrano, si laurea a a Palermo in Filosofia, con 110 lode e menzione, poi in Lettere; consegue il Dottorato Internazionale di Ricerca in «Etica e Antropologia» presso l’Università degli Studi di Lecce, con un periodo di studi a Friburgo, sotto la guida di Bernard Casper, allievo di Martin Heidegger.
Consegue la specializzazione presso la Scuola di Alta Formazione di Aqui Terme in Letture Filosofiche della Bibbia . Studioso del pensiero ebraico, si è recentemente occupato anche del rapporto tra la filosofia e le arti, in specie il teatro e il cinema. Ha insegnato Etica Pubblica nell’Università di Palermo e diretto il Teatro Selinus di Castelvetrano-Selinunte e la sua Scuola per giovani interpreti. Oggi, la sua attività di regista teatrale e cinematografico, legata al tema della didattica del teatro e delle arti alle giovani generazioni, ha maturato diversi riconoscimenti.
Cioè ritorno al teatro dalla porta complessa della filosofia. A mio avviso il teatro non ha nulla a che spartire con la “recitazione”. Questo tipo di teatro, quello di recitazione, diversissimo dal rito classico, ovvero il teatro declamato, finto, cartonato, è morto con l’arrivo del Novecento. E non c’è neanche da rimpiangerlo, tanto era finto e lontano sia dal rito che dalla catarsi stessa. Il teatro che deriva dalla drammaturgia, invece, incarna proprio una filosofia di vita, di esistenza, una lente tramite cui inquadrare il mondo e la vita: è una filosofia come narrazione, tipica dei grandi Autori del Secondo Novecento.
Il “mio” teatro, se mi si passa questa aberrazione, ha la finalità di raccontare il mondo dal margine, dalla periferia, e di farlo tramite non- attori, ovvero tramite interpreti che non hanno esclusivamente scelto la carriera teatrale. Entrambe le cose sono scelte come punti essenziali della mia ricerca. Il margine consente libertà e fuga dagli stereotipi richiesti dal mercato. I non-attori consentono un lavoro sull’anima e sull’esistenza che gli attori, spesso, tendono a semplificare o far diventare tecnica.
Eppure “il mio” non è un teatro per dilettanti, anzi. Tutt’altro. È un teatro che è vita, ed è rivolto a chi cerca di articolare domande sensate alla crisi della contemporaneità. E vuol farlo da una prospettiva privilegiata qual è il margine, la provincia, la periferia. Pur assumendosi ogni incomprensione e ogni incomunicabilità con gran parte del territorio. La prima volta a Teatro: cosa ti ha colpito? La prima cosa che mi colpì in teatro, io che ebbi la fortuna di avere la mia prima volta al Selinus, cioè quello che era un teatro vero, aperto e accogliente, fu la vista sul graticcio.
Il graticcio è l’insieme di ponticelli di corda e legno che stanno sospesi sul palcoscenico ad altezza crescente. Sdraiandosi a teatro, profittando del controluce, solo gli attori possono godere di questo spettacolo meraviglioso. Una tessitura di legni e corde fatte solo per i teatranti, invisibili al pubblico. Questa visuale io ero solito regalarla ai miei allievi della Scuola di Teatro “Ferruccio Centonze”, prima che la sciagurata stagione politica della Giunta Errante alienasse il teatro e chiudesse anche questa realtà legata al territorio e ai giovani.
Noi terminavamo le nostre sedute di training distendendoci a terra e guardando il cielo interno del corpo di fabbrica del palcoscenico. Oltre l’arco di proscenio, quel cielo era solo nostro: dei teatranti. Come è cambiato il modo di "fare teatro"? Ah, il teatro è cambiato molto nei secoli. Se pensiamo che nessuna donna calcava la scena della tragedia classica e della commedia greca, e che fino a Napoleone gli attori erano considerati dei pochi di buono, assimilati ai gradini più infimi della società.
Tranne poche eccezioni, e non fecero eccezione Moliere e Shakespeare, agli attori veniva persino negata la sepoltura in terra consacrata. Oggi, ai livelli più alti, si arriva addirittura ad idolatrare gli attori. Sempre più personaggi che persone, tuttavia, essi incarnano la decadenza del mestiere, se mi è consentito dirlo. Rappresentano la decadenza della narrazione e l’esaltazione di una moda, di un prodotto. Ed io che con l’immagine ho un rapporto conflittuale, posto che raramente mi si vede in scena, o mi si vede fare uno di quei noiosissimi discorsi lunghi ed inutili a fine o inizio spettacolo, so bene che la narrazione è invece il cuore vivo del teatro.
E quando smetto di assistere alla drammaturgia e vedo il vip o il personaggio televisivo, lì il teatro è morto. Per fortuna esiste un modo di reagire alla volgarità televisiva e modaiola: ed è quello di continuare a fare ricerca e didattica. Quando accolsi la proposta di diventare direttore artistico del Selinus, subito pensai alla costruzione di una Scuola di Teatro. Senza didattica non c’è ricerca, e senza ricerca non ci sono pubblici migliori e più esigenti.
Senza giovani non avremmo neanche una tradizione bella come la Rivista dei liceali. Un rito tramite il quale, da 55 anni, i giovani fanno il loro ingresso in società. È bello che i giovani dicano agli adulti che sono “maturi” organizzando uno spettacolo, che con gli anni è diventato sempre più complesso e “professionale”. È una prerogativa di Castelvetrano. Spesso sottovalutata e non compresa dai burocrati. Formare giovani tramite la ricerca teatrale significa anche pareggiare quel vuoto di educazione sentimentale che la nostra epoca digitale e virtuale consegna a tutti noi.
I miei ragazzi non faranno probabilmente gli attori, ma sono certo di aver contribuito alla loro formazione di uomini e di cittadini. Qual è l'utilità del "fare teatro" oggi? L'attuale società è pronta a recepire? Penso di avere già in qualche modo risposto a questa domanda. Il teatro è uno specchio crudele e spesso cruento della società. Restituisce a chiunque abbia voglia di ascoltare una storia, un brivido, un’emozione, un pensiero. Il teatro fa domande non dà risposte.
Per questo serve un pubblico preparato alla sua alchimia. Se crolla il pubblico, spesso crolla il teatro e finisce tutto a pernacchi e frivolezza. Per cui lavorare per un teatro migliore significa lavorare per una società migliore. Senza semplificazioni pop. Perché la realtà è complessa. Quali sono i tuoi prossimi progetti? Il 6 luglio avrò l’onore di essere ospite presso il Teatro Andromeda del grande scultore Lorenzo Reina. È il teatro più bello del mondo, secondo molti critici.
Mi tremano le gambe perché il mio “Mobbidicchi” è stato scelto e fa parte della stagione. Poi comincerà il Festival della Luce, FELUX, quest’anno dedicato al tema dell’esilio. Apriremo domenica 14 luglio presso Trinità di Delia, al tramonto, con una formazione meravigliosa di musicisti siciliani che operano al top del mondo. Maurizio Curcio dirigerà questo concerto “Arie di Sicilia”: la musica tradizionale come non l’avete mai ascoltata.
Magia allo stato puro. Il Festival continua il 21 luglio, domenica, con “Notas de Nostalgia” una interpretazione del Fado portoghese da far venire i brividi, presso la Chiesa di San Giuseppe. Poi il 26 luglio, Maria Domenica Muci presenterà "Gomito di Sicilia" di Giacomo Di Girolamo. Il 28 luglio, sempre domenica, ci sarà l’alba al Chiostro di San Domenico. Uno spettacolo naturale unico con il Flamenco diretto da Deborah Idelia Brancato. Chiuderemo l'1 agosto con "Giarabub", un testo che esordisce a Palazzo Pavone, al tramonto, con Giana Guaiana e Maria Teresa Coraci.
Chiuso il Festival della Luce, che è alla terza edizione, e del quale sono molto orgoglioso perché non ha un euro di finanziamento pubblico, andremo a Partanna, il 6 agosto, nella corte del Castello Grifeo. Poi sarà la volta di dare una mano ai nostri amici del Teatro Abusivo Marsala alle prese con un Festival interessantissimo. E quindi forse ci dirigeremo a Balestrate per un progetto di cui posso dire ancora poco. Dopo ferragosto saremo concentrati sulla preparazione di un testo di Katia Regina, dal titolo “Tu che nella notte nera” con una formidabile interprete, Melania Genna, e la mia regia.
A settembre ci sarà il debutto del mio “Pina Volante. Giusy Barraco a muso duro”, uno spettacolo che esordisce a Palazzolo Acreide e poi a Segesta, il 4 settembre, e che mette a tema in chiave inusitata la storia di una donna che nonostante la sua malattia invalidante non si è mai confusa con la sua sedia a rotelle diventando anche campionessa para-olimpica. Dopo, se tutto va bene, prenderò tre settimane di ferie. Elena Manzini