“Quattro chicchiere con…la Vastedda”
Dalla Zabbina alla Vastedda il passo è breve. Una breve conversazione con uno dei formaggi più rinomati della Valle del Belìce Come nasce la Vastedda? Pensi fui citata già in un documento datato 1497 dal viceré di Sicilia. Quel che è certo è che la mia produzione avveniva già ai tempi in cui la Sicilia era considerata il “granaio di Roma”. Vi è una sorta di leggenda sulla mia "nascita". Un giorno un pastore, dopo la mungitura, si mise a preparare il formaggio mettendo la pasta nei contenitori di giunco, dette fuscelle.
Però a causa delle temperature elevate il prodotto iniziò ad inacidirsi. Che fare allora? l pastore decise di immergerlo nell'acqua bollente, come si fa con la ricotta. Il formaggio iniziò a filare. Sorpreso, il pastore, lo recuperò e lo mise in un piatto fondo di ceramica, la "vastedda". Una volta raffreddato lo mangiò e si accorse di aver ottenuto un formaggio dal gusto particolare, gradevole, fresco. Nella realtà, sono un formaggio che in passato si otteneva solo nel periodo estivo, quando al termine della lattazione le pecore fornivano una minima quantità di latte che non si doveva però sprecare.
Sono una sorta di "mozzarella ovina" o di "pecorino mancato". Ecco quindi che nacque la produzione di un formaggio fresco da poter mangiare nell'arco di pochi giorni. Qual'è il luogo di produzione? La produzione avviene in una zona molto fertile della Sicilia, dove i due rami del fiume Belice confluiscono. Zona molto conosciuta sin dai tempi della Magna Grecia. Il nome Belice deriva dall'arabo "Belich, nome di un castello che sorgeva sulla confluenza tra il Belice destro e quello sinistro, quindi "fortezza tra due fiumi".
La produzione interessa le province di Agrigento, Trapani e Palermo.
Quando si forma la cagliata, essa viene rotta con la "rotula" (un bastone o mestolo di legno) sino a ridurla a pezzetti grandi più o meno come un chicco di riso. Sino ad un massimo di 48h è posta poi nelle fuscelle (contenitori di giungo) affinchè inizi il processo di acidificazione. Dopodiche la pasta è estratta tagliata a listarelle e deposta nel "piddiaturi" (un tino di legno). Il casaro, controllato il giusto grado di acidità pone la pasta ottenuta in un recipiente di legno con acqua calda (circa 90 gradi) e la lavora con una pala di legno, atta alla filatura, che in gergo si suole chiamare "vaciliatuma" o "cisca".
Raggiunta la giusta consistenza, la massa ottenuta, è porzionata. I vari pezzi sono poi lavorati manualmente sino ad ottenere la forma di sfere bianche e lisce. Quindi le forme sono messe in un piatto fondo di ceramica, girate più volte, sino ad assumere la forma di una pagnotta piatta, la "vastedda". Subito dopo le forme sono immerse nella salamoia saturata a temperatura ambiente per circa due ore, quindi essiccata in un ambiente fresco. Ogni forma, che raggiunge il coloro bianco avorio, è liscia e senza crosta e raggiunge i 500-700 grammi di peso.
Ma c'è di più: ora sono anche uno dei Presidi Slow Food. Il tutto nato coinvolgendo un piccolo gruppo di produttori, ce col tempo si è ampliato ed ha coinvolto altri casari della Valle del Belice con lo scopo di razionalizzare i sistemi produttivi, di caseificazione, di conservazione e di trasporto. Elena Manzini