Pietra d'angolo. Alice voleva le ali
L’ultima volta che la vidi, auricolari alle orecchie, libro tra le mani, jeans denim blu e quel sorriso travolgente di brio fu ad ultima ora di una mia lezione di letteratura italiana. Seduta composta al suo solito banco, capelli lunghi sciolti con i boccoli color nocciola, senza un filo di trucco perché bella lo era già di suo, Alice. Una ragazza dolcissima, una alunna modello, sempre disponibile con i compagni, generosa, puntuale e con lo sguardo profondo e a tratti malinconico. Ricordo quella mattina quando varcai la soglia della classe, carica di libri di poesia e narrativa, con la gioia di rivederli tutti quanti i miei alunni di ultimo anno di Liceo, dopo la lunga pausa natalizia.
Il posto di Alice era vuoto, pensai che con la famiglia si fosse fermata qualche giorno in più in montagna perché l’ultima sua foto sulla chat di classe l’aveva inviata da lì. Una baita bellissima immersa nella neve in Val di Susa e sotto la foto un suo saluto speciale per me, la sua prof. preferita, diceva sempre. Forse perché amavo leggere e scrivere come lei. Chissà, certe energie e affinità non puoi spiegarle. L’ultima foto in cui pallida e scarna imbacuccata dalla testa ai piedi salutava tutti.
Il solito sorriso e l’ultimo libro che stava leggendo. Per un attimo, entrando in classe la vidi sorridermi timidamente e poi la immaginai tra la neve e davanti il camino della baita a leggere e a scrivere. Alice e la sua disarmante dolcezza. Alice che all’inizio del nostro percorso scolastico mi disse a bruciapelo: “Prof., Lei si ferma per cinque anni con noi? Non ci lascia, vero? Resta fino alla fine? - ed io sorridendo aggiunsi: “Abbiamo appena cominciato, Alice, siamo ai primi giorni di scuola ma vedrò cosa posso fare per restare.
Grazie comunque per la fiducia, spero di non deludervi.” Sono queste le frasi che adesso mi rimbombano dentro. Adesso che dopo averla immaginata ancora sui monti in compagnia dei suoi genitori e della sorella, la so invece in un letto di ospedale, sospesa tra la vita e la morte. Mi chiedo dove abbia sbagliato, dove abbiamo sbagliato tutti quanti, docenti, genitori, compagni, amici, parenti. Ma la risposta si polverizza tra le mani. Entrando in classe, quella mattina, adagiando i libri sulla cattedra, con piglio sicuro dico: “Ragazzi, bentrovati, mi siete mancati! Forse a voi io un po' meno ma vi ho portato i libri di cui abbiamo parlato durante le vacanze.
Non vedevo l’ora di potere cominciare questo nuovo anno esattamente così!”. Che frase stupida risuona adesso a ripensarci, con Alice alimentata dalle flebo, lei che è agofobica. In classe noto un clima di indicibile silenzio e il banco di Alice vuoto e ignara di tutto aggiungo: “Beata la nostra Alice, ancora in Val di Susa?”.
La sua compagna di banco con le lacrime agli occhi mi guarda e scoppia in un pianto angosciato: “No, prof., no, Alice è in terapia intensiva.” Mi siedo sulla sedia quasi senza respiro. Il resto è rappreso al cuore, alla pancia, a tutti i mei organi. Parlano a turno i ragazzi, i miei ragazzi. Alice non mangiava più. Alice andava avanti con gomme da masticare e sorsi d’acqua. Alice regalava la sua merenda per ricreazione ai compagni. Alice durante le vacanze aveva perso così tanto peso che ormai non si reggeva più in piedi.
Alice voleva essere trasparente eppure si vedeva terribilmente grassa. Alice nascondeva dietro il suo sorriso e i suoi grandi occhi da cerbiatto un dolore sordo e continuo. Annuisco, è vero, era dimagrita tanto dall’estate precedente a dicembre. Tanto da dirle ogni tanto con lo sguardo più severo: “Ali, ma quanti chili hai perso? Basta con questa dieta. Dobbiamo affrontare la maturità, occorrono energie, zuccheri e qualche chilo in più, no? Inizi a nuotarci dentro i jeans.” Anche se nell’ultimo periodo con felpe sempre più larghe e diversi goffe maglie cercava di camuffare la magrezza eccessiva.
Aveva cambiato il suo modo di vestire proprio per evitare che gli altri le dicessero che era troppo magra. Mentre i ragazzi continuavano a parlare, ricomponevo i pezzi di un puzzle durato mesi; gli ultimi prima della terapia intensiva. Un feroce senso di impotenza mi raggelava le vene. Ogni giorno Alice sotto i nostri occhi aveva rifiutato il cibo, era vero. Quando avevamo festeggiato insieme i primi diciottesimi, alla festa di fine quarto anno, durante le ricorrenze condivise e da ultimo per la festività dei Defunti. Davanti il canestro di vimini ricolmo di dolciumi e frutta martorana le era salito quasi un conato di vomito.
Tutti avevamo assaggiato qualcosa e mangiucchiato, tranne lei. Ma nessuno aveva insistito, tanto la risposta era sempre la stessa: “Ho mangiato a casa”. “Non ho fame”. “Ho la gomma in bocca”. “Ho preso il caffè, mi si guasta il sapore”. “No, grazie, davvero, non mi sento.” Mi ricordo che poco prima delle vacanze natalizie le avevo chiesto di accompagnarmi al chioschetto nell’atrio del Liceo per bere un caffè macchiato e prendere una barretta ai cereali. Forse il mio tentativo estremo e inconscio di vederla mangiare qualcosa insieme a me.
Forse il mio bisogno di poterla guardare bene in piedi e non camuffata sempre dietro il banco con il giubbotto imbottito per potere nascondere le fattezze ormai davvero esili. Anche in quella occasione non aveva voluto mangiare nulla e non si era fatta neanche abbracciare. Mi aveva teso le mani fredde e sudate e mi aveva detto: “Prof. davvero, io le voglio bene, lei non c’entra nulla.” In cosa non c’entravo? Quale era il demone segreto che la stava divorando? Troppo tardi. Spesso sono proprio le persone che vogliono bene ad arrivare tardi.
Nel buco nero dell’anoressia ci era caduta da tempo, mi hanno confidato i compagni quella mattina. A salti e a strattoni per tutto il lungo periodo dei cinque anni liceali, i suoi genitori avevano tentato di tutto. Quel viaggio in Val di Susa non era stato organizzato per trascorrere in montagna le vacanze natalizie. Alice era stata ricoverata in una struttura specializzata per disturbi alimentari. Quella magrezza eccessiva era diventata una vera e propria patologia della mente, dell'anima e del corpo.
I genitori seriamente preoccupati avevano cercato l’ennesima possibile soluzione al malessere della figlia. A noi docenti era arrivato appena l’eco di quello strazio. Fino al gesto estremo di Alice. Un messaggio inviato alla migliore amica su chat. “Qui vogliono farmi mangiare a tutti i costi. Il cibo me lo passano con le flebo. Ma io non voglio aghi nelle braccia. Non voglio stare in questo posto. Ti voglio bene, Marti, salutami tutti, pure i prof. Un abbraccio alla prof. di lettere.”
Martina piangeva a dirotto. Aveva provato a chiamarla ma il cellulare dopo il messaggio era stato spento. Da quel messaggio il nulla. Poi la chiamata dei genitori e il resto che si ricomponeva sotto i miei occhi. Tutti i pezzi del puzzle erano al loro posto. Alice voleva le ali. Voleva essere così leggera e libera da volteggiare senza aghi nelle vene. Di anoressia si muore. Alice voleva morire perché credeva che il suo corpo fosse un carcere ormai, una prigione claustrofobica. Si era spenta giorno dopo giorno davanti i nostri occhi e nessuno era riuscito a fermarla in tempo. Eravamo tutti complici di non aver fatto abbastanza.
Non penso potrò mai scordare questa storia che ha profondamente segnato la mia vita di donna, docente e madre. Riesco a raccontarla solo adesso, dopo anni e anni. Vado a trovare Alice spesso. Le porto i fiori che le piacevano tanto, le fresie gialle, le parlo degli ultimi libri che sono usciti, accarezzo la foto in cui splende ancora sul suo volto il sorriso luminoso con cui mi accolse in classe il primo anno di liceo. Ogni tanto le leggo anche i miei ultimi versi e sono sicura che ovunque si trovi mi dica che le piacciono.
Le chiedo sempre perdono perché non ho fatta abbastanza, perché non ho capito che voleva andare via, volare in alto libera senza più il suo già esile corpicino. Le chiedo perdono perché avrei dovuto capire e fermarla, capire e trattenerla ancorata alla vita in qualunque modo. Ma non ce l’ho fatta. Ho fallito. Abbiamo fallito tutti. Abbiamo consegnato ai nostri figli un mondo spietato e violento in cui un dolore sotterraneo si muove annidato nei posti più reconditi. Non ci siamo fermati in tempo per ascoltarli, abbracciarli, stare in silenzio con loro.
Cantare una canzone, fare una passeggiata, preparare una torta, leggere un libro, guardare un tramonto. Alice voleva le ali. Si è spenta in terapia intensiva dopo le vacanze natalizie. Avrebbe compiuto 18 anni da lì a poco nel suo ultimo anno di Liceo. Il suo posto è rimasto vuoto in classe fino a chiusura di quadrimestre. L’ultimo libro che stava leggendo, i suoi auricolari, l’ultima felpa che aveva indossato prima di partire per la Val di Susa. Così hanno voluto i suoi compagni, chiedendolo ai genitori e a noi docenti.
Come se fosse ancora lì a ricordarci che la vita è preziosa ma terribilmente fragile. E fragili siamo tutti noi davanti il dolore dell’altro, fragili e impotenti. Fragili e sordi. Fragili e muti. Il dolore dell’altro ci fa tanta paura perché ci ricorda fin troppo bene il nostro. Ora che Alice ha le ali e il mio cuore ha invece tanti chili di dolore addosso, cerco di sopravvivere scrivendo di lei, raccontando la sua storia, invitando psicologi e nutrizionisti per incontrare i miei ragazzi a scuola, cogliendo ogni loro dettaglio quasi con attenzione maniacale.
Nessuno dovrebbe morire perché non si sente amata. Nessuno dovrebbe vivere l’inferno invisibile di Alice. Nessuno dovrebbe dimenticare che sono gli adulti a doversi prendere cura dei giovani e non viceversa. Nessuno dovrebbe credere che non mangiare sia un capriccio, una fissazione, una moda. Nessuno dovrebbe mai sminuire, svilire, ridicolizzare il dolore dell’altro. Ma forse come ho letto di recente, la mancanza crea nuove strade e la delusione fa cercare nuove soluzioni. Ecco, cerco ancora nuove strade da percorrere e nuove soluzioni.
E lo farò fino alla fine perché anche io tempo fa avrei voluto le ali ma ho scelto di restare per dare agli altri l’amore che non ho ricevuto. Ad oggi è l’unica strada che ho trovato. L’unica che cerco di percorrere insieme ai miei ragazzi. Farli sentire visti, ascoltati, accolti, protetti. Quando ero una giovane docente avevo l’ansia di ultimare il programma. Una corsa frenetica fino all’ultimo argomento. Oggi l’unica ansia che ho è che non si sentano amati proprio da chi conosce l’inferno del non amore.
Sarò sempre grata ad Alice per avermi insegnato che volere bene è toccare l’altro senza paura di farsi del male.
Fabiana Bia Cusumano