Lu Signuri di lu tri di maiu e la festa di li scappuccini ( II parte)

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
01 Maggio 2018 09:23
Lu Signuri di lu tri di maiu e la festa di li scappuccini ( II parte)

Nella giornata di ieri vi abbiamo proposto lo splendido racconto della storia della festa di lu signuri tri di maiu, narrato con maestria da Vito Marino. Di seguito la seconda parte:  Il Crocifisso ligneo, apparentemente insignificante appartenne a Padre Pietro della famiglia Emanuele di Mazara e possiede una lunga storia alle sue spalle: < Dai primi del 1400 ai primi del 1800 tutto il mediterraneo era oggetto di continue incursioni da parte della pirateria barbaresca saracena. I pirati sbarcavano sulle nostre coste facendo razzie di prodotti ed animali ma, spesse volte, anche di persone che portavano via come schiavi (i così detti “cattivi” di Sicilia); per arginare questo triste fenomeno Carlo V intraprese una spedizione militare su Tunisi, sede dei pirati.

L’11/09/1550 i Cristiani durante una battaglia stavano per essere sconfitti, ma Padre Pietro che si trovava lì come cappellano militare invocò il Crocifisso che portava con sé; la tradizione vuole che il Crocifisso avesse risposto testualmente: "Secuta Petru chi vincirai", (continua Pietro che vincerai Così mi raccontava testualmente mia nonna l’avvenimento). Padre Pietro con il Crocefisso alzato esortava i Cristiani a combattere. Quella battaglia fu vinta e Mahadia espugnata. A ricordo di questo evento fu dipinta una tela, raffigurante una iconografia di fra Pietro da Mazara nella battaglia di Mahdia in Africa del 25 luglio 1550 Questo quadro, da 71 anni si riteneva perduto, ma di recente è stato ritrovato e restaurato.

E’ stato l’architetto della Sovrintendenza ai BB.CC. di Trapani, Gaspare Bianco, a ritrovarlo casualmente, sebbene in pessime condizioni, nella Chiesa dei Gesuiti a Mazara del Vallo. Con successive ulteriori ricerche è stato trovato il poema “ I Quarti belli Punici libri sex,” del 1552 del poeta marsalese Vincenzo Colocasio. Si tratta di  un poema epico in esametri latini, il cui protagonista, era il viceré de Vega, con descrizione delle gesta della battaglia. Si tratta, pertanto d’importanti ritrovamenti, perché documenti storici oltre che religiosi.

Il fercolo, meglio conosciuto dai castelvetranesi come “la vara di lu Signuri di lu tri di maiu”, che si trova presso la chiesa dei Cappuccini, si presume che sia stato costruito dall’intagliatore Francesco Paolo Curti di Castelvetrano nel 1800. Si tratta di una massiccia impalcatura lignea barocca, riccamente decorata e dorata, con quattro colonnine policrome. Pur essendo molto pesante, in un primo tempo, in occasione della processione veniva portata a spalla per devozione dei fedeli. Io la ricordo sempre trasportata da un mezzo meccanico.

Per la cronaca, nel 1961 la vara fu restaurata dal nostro concittadino scultore e artista Castrense Pisani (1910 – 1971). Essendo Maggio il mese dei fiori, la vara era ornata di rose che, terminata la festa venivano distribuite fra i fedeli. La “vara”, nella tradizione popolare sacra sta ad indicare la bara dove viene trasportata l’immagine di Cristo morto o della la Madonna Dormiente. Nell'antica Roma, era la portantina sulla quale venivano esposti e trasportati in processione oggetti proposti al culto e all'ammirazione collettiva.

Oltre ai fiori la vara portava numerosi campanellini d’argento che, durante il cammino con i movimenti naturali o provocati appositamente dai portatori, provocavano suoni argentini. Secondo delle antiche credenze il suono è nemico degli spiriti impuri e delle forze negative, per cui i campanelli hanno avuto sempre valore di purificazione, quasi che streghe, diavoli, spiriti di defunti, folletti e altro vengano messi in fuga e allontanati dallo squillare del metallo. Anche gli altri rumori hanno lo stesso potere e tale è quello del tamburo: “li tammurinati” (le suonate di tamburo) che ancora risuonano nelle feste locali oggi sono intese come innocenti manifestazioni d'allegria, ma tali non erano quando i cortei attraversavano le campagne.

La credenza che i diavoli vivessero nei fulmini, si annidassero nei mulinelli del vento, cavalcassero le nuvole e le comete, conducessero le schiere dei nembi a mettere a soqquadro intere plaghe della terra non è ancora scomparsa. Per questo era opinione che la campana stendesse la sua protezione sullo spazio per quanto arrivava il suo suono ed è anche per ampliare questa zona che si tendeva a fare alti i campanili. Anche nei vecchi campanelli di casa, che si tiravano col filo, era di solito impressa un'immagine sacra, spesso della Madonna, oppure vi si incideva una formula sacra o di scongiuro.

Dal 1582 fino al 1900 si costruirono parecchie Vare, macchine lignee a struttura barocca o rococò, riccamente decorate e dorate, vere opere d’arte a forma irregolarmente conica, chiamate cerei o candelore (simili a cere o a candele),  ornate di angeli, statue e fiori., alla cui sommità venivano poste immagini sacre, realizzate in paesi del Sud Italia; bellissima, ad esempio, quella di Messina. C’era una gara, con premi per il migliore allestimento in termini di altezza, quasi per dire, che più in alto si andava più si era vicini a Dio.

Lungo il percorso attraversato dal corteo, ai quattro canti, venivano eretti degli “archi trionfali”. A Castelvetrano fu famoso l’arco costruito in muratura nel 1811 per onorare magnificamente la venuta del re Ferdinando IV di Borbone. La magnifica costruzione si trovava a toccare il convento di S.Franresco di Paola, e fu chiamata la “Porta Ferdinandea” distrutta, a furor di popolo durante i moti del 1820. Gli archi in onore del SS. Crocifisso erano composti da quattro pali, conficcati per terra in corrispondenza dei quattro angoli della strada.

Ogni fiancata era chiusa con un grande arco a tutto sesto. Sulla sommità formavano come un tetto piramidale terminante con una maestosa corona formata da ramoscelli di mirto intrecciati, ed una piccola croce sopra. Il tutto era contornato  con rami di mirto, alloro, rami di palme, fiori, catene di carte colorate e molta frutta. Inoltre, si aggiungevano pani lavorati in forme diverse, tutti simboli di auspici di prosperità e benessere. Io ricordo dei pani a forma di fanalini, simboli della luce divina.

Come avveniva per i pani preparati per gli altari di  San Giuseppe, per la festa dell’Immacolata, e per quella di San Giovanni, ancora una volta in una manifestazione religiosa compare il pane di frumento, non lievitato e cotto al forno, nelle forme e figure più diverse, a simboleggiare la tradizione cristiana e l’emblema della vita. Di sera una grossa lampada illuminava tutto lo scenario. Si trattava quindi di una pomposità barocca ricca di luci e colori, e nello stesso tempo uno scenario fastoso naturalistico; un trasmettere di sacralità dove l’elemento verde sembra alludere al legame tra Dio e popolo.

Lungo il percorso della processione, per iniziativa di semplici privati cittadini fedeli, si eseguivano i “posi" (soste). Davanti la casa si preparava un altarino addobbato con foglie di palma, preziosi tappeti, tovaglie ricamate, fiori profumati, grossi ceri accesi ed immagini sacre. Ad ogni altare, il corteo faceva una sosta e veniva officiata la santa benedizione ai numerosi fedeli presenti. Durante quella sosta il Crocifisso era portato anche al letto degli ammalati (si parla di guarigioni miracolose).

In quell’occasione avvenivano offerte di denaro al simulacro e rinfreschi ai frati, ai musicanti e ai portatori. Il Padre predicatore si affacciava dal balcone ed improvvisava una lunga predica erudita, che riusciva a commuovere e far piangere l’uditorio, seguita da scoppi di “mascuna” (mortaretti), “tammurinata” e “scampaniata”, tre manifestazioni che hanno da sempre accompagnato le principali feste religiose. In merito un proverbio antico dice: -“Nun c’è festa senza parrinu e mancu senza tammurinu”.

I predicatori, tutti padri cappuccini di un’elevata cultura, venivano anche da altri conventi e si alternavano nelle prediche. Intorno agli anni ‘50 ricordo che il commendatore Infranca, che faceva parte anche del comitato per la festa del SS. Crocifisso, oltre a contribuire economicamente alla festa, in piazza Dante davanti la sua abitazione, durante “lu posu” metteva a disposizione della cittadinanza una tinozza piena di buon vino di sua produzione, con bicchieri e boccali; molte persone, specialmente quelle amiche di Bacco, ne approfittavano, per farsi una bevuta gratis.

Si trattava di un episodio rilevante in una civiltà contadina, ove non esisteva niente di più interessante da offrire alla cittadinanza in una festa così importante. “Lu posu” più lungo e più ricco di oboli in denaro e in libagioni, era quello offerto dalla famiglia Saporito, che, sebbene in decadenza, possedeva ancora tante ricchezze. IL DECLINO DELLA FESTA: Alcuni anni fa c’era stato un risveglio fra gli organizzatori e dopo avere preparato i costumi medievali avveniva la sfilata del corteo storico per le vie della città, per come avveniva nel passato.

Purtroppo, per un’aria di prepotenza che spira a Castelvetrano, il corteo è stato boicottato per prediligere quello di Santa Rita da Cascia  che si svolge nello stesso mese di Maggio, che non ha niente di tradizione castelvetranese, essendo stato inventato a tavolino ex novo da qualche decennio, da organizzatori di una certa influenza politica. Oggi, la ricorrenza del SS. Crocifisso si festeggia con una semplice processione con i simulacri del SS. Crocifisso  nella vara, di San Francesco, San Giovanni evangelista e della Vergine Addolorata per le vie del quartiere.

Della grande festa e folclore dei tempi passati resta soltanto la fede popolare, che per fortuna ancora non manca per il SS. Crocifisso. VITO MARINO          

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