L’Elzeviro di Bonagiuso : un vuoto come d’attesa

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
03 Agosto 2020 16:00
L’Elzeviro di Bonagiuso : un vuoto come d’attesa

C’è, a guardare intorno, come un vuoto d’attesa. Un vuoto di quella categoria, l’attesa appunto, che aveva contraddistinto molte delle nostre pause, dei nostri sguardi lunghi, delle nostre aspettative. Un vuoto che ha sprofondato quel salvagente necessario, l’attesa, che era riuscito a farci digerire le pietre più indigeste e le patate bollenti più immangiabili. Ora sembra che l’attesa sia sprofondata, si sia svuotata, non più in una sospensione cronologica, ma in un muro. L’orizzonte delle prospettive sembra incrinato, e la capacità razionale di prevedere, gestire e risolvere, par polverizzata.

Davanti a noi un fiato sempre più corto e un orizzonte sempre più stretto. Quasi asfittico: un vero e proprio furto di futuro, di programmazione. Questo, in estrema sintesi, il sentire del contemporaneo intorno al problema Covid-19, che non è un virus, o meglio non è solo un virus venuto da un pipistrello, ma è, insieme, tutte le conseguenze di una globalizzazione della quale sembravamo mai esserci accorti in pieno. Covid-19 ha mostrato all’Occidente dell’opulenza, delle borse, del denaro e della cooptazione, della rapidità, dello sfruttamento delle risorse, della impavida sfrontatezza, del cinismo, quanto fragile sia l’argine al male, e quanto piccola sia la capacità reale di difesa dell’uomo occidentale quando il pericolo non sia questa o quella cosa singola, ma tutto l’orizzonte vitale.

Avevano avuto un buon gioco, sovranisti e populisti a designare nell’uomo nero, extra-qualcosa, il nemico, il mostro da combattere, in quel crepuscolo del Novecento che ancora si allunga sulle prime luci del Duemila. E neanche un ventennio è durata l’incubazione xenofoba, che il male, oscuro e indicibile, ha chiaramente mostrato di provenire da noi e da noi stessi, è frutto del lato oscuro del Capitalismo e prevede come terapia di prevenzione l’interruzione del frenetico agire come massa, come gregge.

Già Esposito, filosofo napoletano, prima di ogni sospetto, cioè da 30-40 anni circa, aveva indicato nel “munus” lo stilema che unisce e separa le persone. Il munus che nella “comunità” (cum-munus) è condiviso, messo in comunione, e che è la stessa radice di “im-munità”, di schermo a quel “munus” che non vogliamo ci contagi e ci uccida. Il munus: moneta? Identità? Essenza? Boh, chissà, verrebbe oggi da dire. Di certo c’è che il munus è una cosa che portiamo almeno in due, come un anello che collega le persone pure quando sono staccate.

Il munus in comune, così come il munus da cui schermarsi, è sempre “munus”. Con (Cum) e Non (In) sono le due nuove parole che lo declinano, che trasformano l’hospes, l’ospite, in hospes, nemico. Sono le parole dell’etica pubblica, sotto forma di bio-politica, che non abbiamo saputo ascoltare, nè declinare, convinti che solo l’economicus avesse titolo a informare di sè ogni aspetto del reale. Ma oggi è la vita, la nuda vita, ad essere messa in questione e non da un ospite palese, ma da un virus, da una delle vite più microscopiche e parassitarie che possano esistere in natura.

Un hospes, questo hostes: un ospite, questo nemico, che attraverso noi si perpetua, attenuandosi o scaricando mortalmente la sua stupida distruzione. Lui vuole solo vivere, replicarsi, anche a scapito dell’ospite. Ci ricorda qualcuno; l’uomo che, nella sua folle corsa a replicarsi, ha violato ogni patto con l’ospite natura, diventandone nemico. Ora forse, la storia si sta ripetendo. Ecco perché la nostra attesa sembra svuotata e polverizzata.   Giacomo Bonagiuso

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