La mafia non esiste! Riflessioni semi serie, parte prima

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
18 Novembre 2017 10:07
La mafia non esiste! Riflessioni semi serie, parte prima

 Sono nato nei '50: gli anni della ricostruzione. Dalle macerie della guerra emergeva in maniera prepotente quella mafia che durante il ventennio aveva dovuto mantenere un profilo basso per l'ostilità, spesso di facciata, del regime e si era, comunque, ben inserita nelle pieghe multiformi del "potere". Adesso, agevolata dallo sbarco degli Americani che, per ragioni strategiche, si erano a lei appoggiati, riprendeva il controllo del territorio. Fu in quegli anni che alla mafia dei latifondi, a quella delle zolfare, e a quella dei “giardini” (gli agrumeti attorno a Palermo) si aggiunse quella della città con i suoi interessi nell'edilizia, che avrebbe condotto al sacco edilizio di Palermo, e nel traffico internazionale di stupefacenti, grazie anche ai rinnovati e intensissimi rapporti con l'America.

Non per niente in quegli anni si affermò un nuovo nome per la mafia, “Cosa nostra”, mutuato dal parallelo fenomeno siculo americano.Erano gli anni di Michele Navarra, notabile, medico e capo mafioso di Corleone, della famiglia Greco.Il periodo in cui sono nato era quello della disgregazione delle grandi proprietà latifondistiche e delle lotte dei contadini per la terra. Sostanzialmente una lotta tra la mafia, nelle figure dei proprietari e dei loro gabellotti o campieri, e i contadini. Quanti sindacalisti, che coraggiosamente aiutavano i contadini e li guidavano nelle lotte per l'esproprio dei latifondi che con la Legge Gullo si sarebbero ridistribuiti, furono uccisi dalla mafia! Accursio Miraglia, Epifanio Li Puma, Calogero Cangelosi, Placido Rizzotto.

La strage di lavoratori a Portella della Ginestra.Chissà come è nata e si è affermata una certa idea romantica, assolutamente falsa, sia della mafia che di Giuliano, che tuttora resiste se il mio barbiere dice che “la mafia, per come la intendo io, è che uno si prende un territorio e lo protegge”?  Poi, paragonare quel delinquente al servizio di troppi che fu Giuliano, uno che sparava sui contadini disarmati, a Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, è la triste dimostrazione di come una cosa falsa possa brillare come verità nella testa di molti sprovveduti.

Nel 70 cominciai a frequentare l'Università di Palermo. C'era Ciancimino sindaco e Francesco Vassallo era un costruttore in auge e uno dei protagonisti del sacco edilizio di Palermo agevolato dalla politica. Abitavo proprio in uno dei palazzi costruiti da lui nella zona nuova di Via Marchese di Villabianca e fu proprio davanti casa mia che fu rapito il figlio di don Ciccio, Pino Vassallo. Dai corleonesi di Liggio.Qual'era allora l'atmosfera in cui viveva la “gente”? Cosa pensavano della mafia le persone comuni, quelle che per secoli si erano addestrate all'osservazione scrupolosa di tutto pur, al tempo stesso, non vedendo niente.

Ad origliare il minimo bisbiglio senza sentire niente, sulla scorta di un bagaglio socio-culturale che fa della discrezione più assoluta l'elisir di lunga vita:“la megghiu parola è chidda c'un si dici”;  “cu si fa l'affari so' campa cent'anni”;  “nenti sacciu, nenti vitti, 'un c'era e ssi c'era durmìa”,  “ 'Un nnociri lu cani chi dormi. Ma mancu chiddu vigghianti”.  La più totale inazione. Il clientelismo che ci contraddistingue sul versante socio-politico, da noi si intreccia strettamente con il familismo amorale che ha sempre caratterizzato le società meridionali e che, secondo Banfield, è all'origine della nostra arretratezza economica e sociale.Queste “tipicità” le condividiamo con la mafia che le ha assunte a fondamento, anche se non esclusivo, della propria azione.

Un'assenza, mai realmente colmata, dello Stato nel meridione ci ha certamente abituato a rivolgerci al "don" di turno per risolvere i nostri problemi tanto che, durante la formazione dello stato unitario e della relativa burocrazia e classe politica, il passaggio culturale dal favore chiesto a “don Mommu”, che trascorreva le sue giornate al bar ascoltando e vagliando le suppliche, al favore chiesto al politico di turno, è stato scorrevolissimo. Solo da noi i diritti civili sono sempre stati vissuti come favori da ottenere.

Quando avevo vent'anni si abbassava la voce quando si parlava di mafia, giusto come faceva mio padre quando mi raccontava di come proprio don Mommu lo avesse accolto, al suo insediamento come direttore didattico a Gibellina, sotto la sua “ala protettrice” e con un caffè al bar, che era il suo “ufficio”, gli avesse apposto “lu puddu”: “lu diretturi di la scola è cosa nostra”. Il messaggio a quelli presenti e non presenti era: “s'aviti bisogno di lu diretturi rivolgitivi a mia”.

Franco La Rocca

N.B. Se volete leggere altri pensieri e riflessioni del nostro opinionista Franco La Rocca potrete anche consultare il suo blog personale che troverete all’indirizzo: 

https://tongueofsecrets.blogspot.it/

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