ELOGIO DEL CONSERVATORISMO Riflessioni a margine di un ponte che mai si farà

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
08 Luglio 2018 10:00
ELOGIO DEL CONSERVATORISMO Riflessioni a margine di un ponte che mai si farà

Stia sereno il signor Marino, quanto da me scritto non voleva essere una risposta al suo articolo. Se l’illustre storico avesse letto con un po’ più d’attenzione le mie quattro righe, avrebbe dovuto capire, già dall’incipit, che il taglio del mio intervento andava al di là sia del fatto in sé (ponte sì-ponte no,  tanto è chiaro che il ponte non lo faranno mai!) sia dei dati puramente tecnici, che pure sono importanti, cosicché non hanno senso i paragoni con la Manica o col Giappone, perché qui, lo ripeto, si tratterebbe di un’opera faraonica, di un veglio di Creta, in un contesto in cui mancano le infrastrutture essenziali, i viadotti cadono e le ferrovie sono fatiscenti.

Il ponte era una provocazione per toccare il motivo della sicilianità o, se si preferisce, della sicilitudine. Stessa attenzione mi sarei aspettata sul dibattito per la ricostruzione del tempio G, tema che ho cercato di affrontare, a suo tempo, non su basi solamente emotive ma, per quanto possibile, con un approccio scientifico e storico-culturale, citando - cosa che sempre si dovrebbe fare e che qualcuno sovente dimentica - fonti e documenti, offrendo degli spunti di riflessione, piuttosto che certezze precostituite; che è poi la stessa posizione di Valerio Massimo Manfredi – tra gli ultimi fautori dell’idea - culminata nel convegno dell’ottobre 2012 che vide a Selinunte la presenza di oltre quaranta studiosi di livello internazionale, e i cui atti, prima di pontificare a vanvera, sarebbe il caso di leggere e meditare.

Ho cautamente sostenuto, in estrema sintesi, l’ipotesi di una parziale anastilosi, rimettendo in ogni caso la decisione – visto che non sono uno specialista del settore né un tuttologo a la page – a chi sull’argomento ne sa più di me. Ma quello su cui mi vorrei soffermare, sine ira et studio, è  l'accusa, che trovo francamente  ridicola, di conservatorismo legato all'età avanzata, come se essere conservatori fosse una malattia senile o  un obbrobrioso marchio di vergogna. “Lei è un conservatore”  è diventato  il più infamante degli insulti, ed è diventato un ritornello insopportabile quello del cambiamento ad ogni costo, cosicché difendere le buone eredità del passato è quanto di più politicamente scorretto oggi si possa immaginare.

Tutti cercano volti nuovi, a prescindere, e la diffidenza nei confronti del nuovo, nei frequentatori dei salotti buoni come anche negli apprendisti stregoni di provincia,  non viene ammessa in nessun discorso, sparisce progressivamente dalla sfera privata come da quella politica e intellettuale. Non ci sono più aristocratici e neppure borghesi per rivendicare l'ossequio degli usi o celebrare l'opera del tempo. Quella che si definisce borghesia è composta quasi esclusivamente da anti-borghesi che sacrificano la ragione alla passione, che,  in nome dello spirito d'avventura, scherniscono lo spirito di serietà, che preferiscono con disinvoltura l'intensità alla durata e che hanno ormai da tempo abbandonato il linguaggio arido della virtù per quello, variegato, della pluralità dei valori, dell’integrazione ad ogni costo, del multiculturalismo relativistico.

Si parlava, una volta, della virtù del «buon padre di famiglia»; ma quest’era è tramontata, come d'altronde quella dell'amore eterno. Gli iscritti al nuovo ordine amano, piuttosto, «creare, godere, muoversi». Si dicono fieramente «nomadi» perché praticano la navigazione virtuale, perché si servono del telefono portatile, di tutte le diavolerie tecnologiche, e tengono, in ogni modo, a ben marcare la loro distanza abissale dal modello del gretto e panciuto ignorante. Niente è più odioso, per questi fustigatori della reazione, del richiamo alla tradizione, niente li irrita maggiormente della permanenza o della stabilità.

L’equazione nuovo-migliore è un dogma indiscutibile. Guai ad appellarsi  al «c'è già» contro il «non ancora»; tutti si richiamano all'innovazione contro la tradizione. Che si tratti dell'Europa, della scuola, della cultura, dell'impresa, o di un ponte inutile, si vuol sempre far smuovere le cose, dinamizzare le istituzioni e gli uomini. Lo abbiamo visto anche nella campagna elettorale dell'ultimo referendum: bisognava votare sì perché era giusto cambiare; poco importava se le novità erano poi delle porcherie! Non è più l'esperienza a essere celebrata nelle nostre società, ma l'effervescenza, l'energia, la foga; e al rispetto per gli Anziani si è sostituita la celebrazione dei vecchi che pateticamente cercano di rimanere giovani.

C’era un tempo in cui l'ordine si contrapponeva al movimento, mentre ora non esistono che i partiti del movimento. Varcate già da un pezzo le fatidiche “soglie” del terzo millennio, tutti vogliono non solo essere moderni, ma anche riservarsi l'esclusività di questo appellativo supremo. «Riforma» - scrive Finkielkraut -  è la parola chiave del linguaggio politico attuale, e «conservatore», come si diceva, è la parolaccia che la sinistra e la destra si sbattono reciprocamente in faccia.

Pensiero irritante, il conservatorismo non è mai assunto in prima persona: il conservatore è l'altro, quello che ha paura, paura per i privilegi o i benefici acquisiti, paura della libertà, del grande largo, dell'ignoto, della mondializzazione, dei profughi, della flessibilità, dei cambiamenti necessari. Persino gli ecologisti si pongono all'estrema punta della modernità militante. Di Daniel Cohn-Bendit, la figura emblematica del Maggio '68, che in Francia è diventato il loro portavoce, e che non perde occasione per fustigare il passatismo ridicolo dei suoi concorrenti o dei suoi avversari, un editorialista scrupoloso e sensibile al suo fascino ha scritto: Egli parla contemporaneo.

Pensa contemporaneo. Vive contemporaneo. Respira contemporaneo. Si esprime in una lingua del suo tempo sui problemi del suo tempo, con le parole e le idee del suo tempo. Il verde, in effetti, non è il colore della salvaguardia, il verde è il colore della vita. Oggi, tutti i protagonisti del dibattito ideologico sono dei vivi che si trattano reciprocamente da morti e la nostalgia, da qualunque parte provenga, viene considerata sistematicamente come mancanza di coraggio. Ad Hans Morgenthau, che un giorno, con malcelata impazienza, le domandava dove si situasse politicamente, Hannah Arendt diede questa risposta: Non lo so, non lo so davvero e non l'ho mai saputo.

La sinistra pensa che io sia conservatrice e la destra che io sia di sinistra, anticonformista o dio sa cos'altro ancora. E, devo dirlo, la cosa mi è del tutto indifferente. Questo paradosso testimonia, per quanto riguarda la Arendt, della stessa esperienza del XX secolo. Il conservatorismo, si sa, è nato come reazione alla Rivoluzione francese. Come conferma la prima grande querelle sul tema, fra Edmund Burke e Thomas Paine, il conservatore è prima di tutto l'uomo che protesta contro i diritti dell'uomo.

Nelle sue Riflessioni sulla Rivoluzione Francese, che pubblicò a caldo, nel 1790, Burke sostiene che il linguaggio dei diritti dell'uomo attenta alle condizioni di una vita umana. La dichiarazione dei diritti fa di coloro che essa pretende di rispettare — cioè gli uomini — degli individui, benché essi siano anzitutto degli eredi e benché lo Stato debba essere concepito come un'associazione non solo tra i vivi, ma anche tra i vivi e i morti e tutti coloro che nasceranno in futuro.

Procedendo in senso contrario all'orgogliosa ragione dei Lumi, a quelle che il Leopardi sprezzantemente definì le magnifiche sorti e progressive, la saggezza conservatrice dà credito agli estinti, cioè alla ragione nascosta nei costumi, nelle istituzioni e nelle idee ricevute. All'uomo in generale, il conservatore contrappone singole tradizioni. All'astrazione, l'autorità dell'esperienza. All'individuo chimerico, la realtà effettiva dell'essere sociale. Alle rivendicazioni presenti, la pietas verso il passato.

Alla filosofia, infine, la sociologia e la storia. Il conservatore ha una concezione pessimista della natura umana. Sa che in generale gli esseri umani – come ha insegnato il Segretario fiorentino - sono molto più inclini a sopraffare, offendere, infliggere umiliazioni e sofferenze piuttosto che cooperare, vivere in pace e rispettarsi. Per questo vuole uno Stato bene ordinato che imponga il governo della legge a tutti e seri limiti al potere di chi governa. Considera lo Stato debole l’anticamera dell’anarchia, intesa quale dominio dei molti prepotenti; reputa lo Stato autoritario uno strumento dell’arbitrio di uno o di pochi.

Di fronte al dilemma se sia peggiore lo Stato debole o lo Stato autoritario non ha dubbi a rispondere che il primo è male peggiore del secondo, ma aggiunge che anche lo Stato autoritario va combattuto in nome dello Stato di diritto. Uno dei princìpi primi», scrive Burke, uno dei più importanti fra quelli che consacrano la Repubblica e le sue leggi, è quello di evitare che coloro che ne hanno temporaneamente l'usufrutto si mostrino immemori di quanto hanno ricevuto dagli antenati o di ciò che devono alla loro posterità, e che agiscano come se ne fossero i padroni assoluti [...].

Se si concedesse senza scrupolo la facilità di cambiar regime così tanto e così spesso e in tante maniere quante sono le fluttuazioni nelle mode e nell'immaginario, l'intera catena e la continuità della cosa pubblica ne verrebbero spezzate. Non vi sarebbe più alcun legame tra una generazione e l'altra. Gli uomini avrebbero meno valore delle mosche di un'estate. Per tutto questo, signor Marino, sono un conservatore; lo sono non perché vecchio, ma perché – nei limiti del possibile e per quanto può insegnarmi qualche libro letto – mi sforzo di essere saggio.

Francesco Saverio Calcara

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