Una lettera a Don Gioacchino Arena

Nel giorno del commiato da Castelvetrano, Giacomo Bonagiuso scrive una toccante lettera a Don Gioacchino

Redazione Prima Pagina Castelvetrano
Redazione Prima Pagina Castelvetrano
29 Settembre 2021 08:00
Una lettera a Don Gioacchino Arena

Volevo scrivere una lettera ad una persona molto importante per me. Avevo anche preso carta e penna, come usa dire ormai con espressione stereotipata (anche perché scrivere “m’ero messo davanti alla tastiera del computer” rischierebbe di suonare poco poetico). In realtà io la carta e la penna le avevo davvero prese in mano, già alla notizia del trasferimento di Don Gioacchino Arena da Castelvetrano, a Vita. Ma ho atteso. Ho atteso che maturasse bene dentro di me il legame, certo molto giovane, tra me e questo sacerdote.

Sono un fortissimo cristiano, un credente saldo e filosoficamente fondato, quindi pieno di dubbi, di proteste e di domande come ogni credente fondato: ma dal cattolicesimo m’ero allontanato. Senza alcuna abiura, ma come quelli che se ne stanno in un angolino a vedere se vince la Chiesa di Francesco o quella del Timone. In due mosse, due giorni, questo sacerdote, ha saputo risvegliare in me cose sopite, ricordandomi che la Ecclesia, la forma della cristianità, in fondo non è una cosa strutturata, ma l’insieme di sensibilità, di sguardi, e soprattutto di carità che circondano la speranza comune. Io non dimenticherò mai una sua omelia (più di una, in verità), nella quale ha dato forza al mio cristianesimo dicendo testualmente “non si può essere cattolici senza essere prima cristiani”. I miei occhi pigri si sono aperti. E da lì ho cominciato davvero ad ascoltare la voce di Padre Gioacchino Arena.

E sì, ora passo al tu: caro Don Gioacchino, poiché sono sfortunato, ti perdo proprio quando ti ho trovato. Tu torni a casa, a Vita, e qui giunge un nuovo pastore. Sì lo so, conoscendolo di certo anche lui avrà parole per le mie orecchie e per la mia anima. E so anche che nella turnazione sacerdotale v’è, per essenza, la parte buona del legame, che così resta inteso alle persone, mai alle cose, alle strutture o alle abitudini. Sarebbe interessante cambiar paese e vita, periodicamente, anche per noi comuni mortali, sebbene, fuori da ogni emulazione, anche io, nei diari, uso dividermi la vita in cicli: da quello giovanile, a quello universitario, a quello filosofico, a quello teatrale. In mezzo ci sta l’amore. Quello a cui avevo pure smesso di credere, e che per fortuna s’è materializzato in carne ed ossa e sorriso. Ah, sì, materializzato, scrivendo a te lo posso dire, senza scandalo, proprio per via delle tue omelie.

Ah, se mancheranno alle orecchie di questa Città le tue omelie, le “prediche” come si diceva qualche anno fa! I segni del Cristo spiegati tramite la quotidianità e tramite gli scandali, senza esitare, facendoci tutti tremare e facendoci comprendere quanto enorme fosse il Maestro. Quanto scandaloso fosse il Maestro. Quanto alto fosse il Maestro. Enorme per la piccolezza, scandaloso per l’ipocrisia, alto per la bassura cui spesso ci confiniamo per paura, per solitudine, perché siamo terrorizzati da questa vita e dalle sue conseguenze.

Ah, Padre Gioacchino quanto mi mancherà l’appuntamento domenicale alla lezione di teologia, dal pulpito, che mi faceva gioire dentro, non solo per la capacità di mischiare cultura e semplicità evangelica, ma per quel gusto rarissimo di non essere mai banale né stucchevole. E no, non ti sto facendo la recensione, perché quelle parole non le possedevo e non le posseggo, ma mi piaceva ascoltarle, ma sto provando, dietro la barba e i baffi e sta maledetta/benedetta mascherina, a dirti più semplicemente che ti voglio bene e che Castelvetrano avrà un buco grosso, di pensiero, di parola, di accoglienza e di profondità.

Naturalmente in dodici anni ti sarai certo accorto che questa Città ha nicchie di riconoscimento miste ad abissi di indolenza, di noia, di sconforto, di nulla. E tu che venivi da Mazara forse all’inizio ti sarai spaventato. Oppure avrai preso questa nostra terrificante “faccioleria” come una sfida.

Direi che io la Chiesa di San Francesco così gremita non me la ricordo, ma sto usando un criterio sbagliatissimo. Mica la messa va ad audience, se no basterebbe far predicare Maria De Filippi ed avremmo riportato i giovani in chiesa, a far dischi senza storia, a fiammeggiare di successo per poi spegnersi di noia.

Ripeto: a me la tua profondità non usuale né scontata mancherà. Profondità che a volte, scherzando con gli amici, definisco “ai limiti del cattolicesimo ufficiale”. Letture del Vangelo e della Scrittura sempre molto forti, molto, che lasciano la via della “favoletta” per scontrarsi con la rude e spigolosa presenza del cristianesimo nella storia, senza mai tralasciare i segni reali, concreti, fisici della Cristianità, segni che preludono a quel “hoc est enim corpum meum” in cui la Cattolicità compendia tutta la fede.

Don Gioacchino, insomma, io volevo solo scriverti del mio affetto, di quanto le tue parole e il tuo sguardo accogliente hanno operato nella mia (e nostra, penso di poterlo dire anche per F.) vita, e sono finito a scrivere un incrocio tra recensione, rimpianto di non essermi scucuzzato prima, e lodi teologiche. Eppure quando Don Antonino ci ha sposati (me e F.) ed ha esordito con il tuo messaggio, mi hai fatto piangere come un bambino che riceve la letterina di Babbo Natale.

Mah, pure se non sono bravo a manifestare l’affetto, anche se un solo obbiettivo su quattro ti giungesse all’orecchio e al cuore sarei felice lo stesso. Tanto devi un po’ rassegnarti a veder di tanto in tanto la mia (nostra) faccia tra i banchi della Chiesa di Vita… perché è vero che non bisogna attaccarsi alle cose, ma alle persone sì. E io un po’ attaccato lo sono, e sì mi dispiace un botto che te ne vai. Proprio troppo.

Buona vita, buona predicazione e a rivederci presto, Don Gioacchino.

Tuo

Giacomo Bonagiuso

foto di Gianni Polizzi

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